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Raikkonen vince ad Austin ma per la Ferrari il 2018 è il campionato dei rimpianti!


Giova ricordare che una scuderia è davvero vincente quando riesce a piazzare entrambi i piloti sul gradino più altro del podio nel corso della stagione. Lo ricordo ai sezionatori da Gippì, coloro che riducono uno sport che fonde aleatorietà e scientificità all’atto di spostare macchine qua e là sull’asfalto come se si trattasse di giocattoli radiocomandati: chiedere a gran voce che questo o quel pilota si scansi per far passare l’uomo del destino di turno – perché è “inferiore” oppure guida per un team satellite – o che il compagno di team ceda la posizione per massimizzare il risultato – evocando i tanto infamati team orders – è qualcosa che può far funzionare una gara o due, ma non un campionato. Va bene da spettatore travolto dalla foga adrenalinica della gara, quando dal divano – ma neppure live da Lesmo o Raidillon, fidatevi – comprendi certe azioni all’impronta, ma è poco giustificabile quando ci si mette l’abito del commentatore, cioè di chi conosce la differenza fra una mera opinione personale e un giudizio obiettivo.

I campionati si vincono quando si ha una macchina migliore delle altre. Una macchina nel senso di due monoposto, non di una che fila come un razzo mentre l’altra finisce in via di fuga con qualcosa che frigge, fuma o fonde. Questo è insindacabile in una Formula Uno in cui la componente tecnologica ha da tempo preso il sopravvento sull’elemento umano, includendo in quest’ultimo anche la creatività progettuale ormai ingabbiata dal regolamento. La tecnologia, come la matematica e tutte le scienze, non mente mai anche se potete farle dire tutto quel che volete interpretando in modi differenti le sue risultanze: se una monoposto, uno sviluppo aerodinamico o una power unit sono validi, lo dimostreranno incontrovertibilmente nel corso del campionato.

I campionati, però, si vincono anche con gli uomini. Con le centinaia di protagonisti silenziosi che progettano, studiano, testano, smontano e riparano, con le poche teste che ordinano, decidono e governano questo piccolo esercito e con due numeri uno al volante, in ogni caso. Sì, in ogni caso: che si scelga di non puntare su una prima guida o si dichiari apertamente di avere un caposquadra e un subalterno, in ogni caso occorre avere un numero uno, cioè uno che vinca quando l’altro non può farlo. E che sia messo in condizione di farlo con i mezzi adeguati, i giusti assetti e le corrette strategie: facile additare il malcapitato di turno, reo di non rendere adeguatamente e accusato di essere indegno della tuta che indossa, quando ha fra le mani un mezzo non all’altezza o viene mandato allo sbaraglio in mezzo a venti caimani senza un preciso disegno tattico.

Se siete arrivati fin qui avrete voglia di proseguire, quindi vi chiedo di prendere quanto sopra scritto e rileggerlo come se fosse stato pensato non per ogni scuderia ma per la Scuderia, la Ferrari, e non per un campionato qualunque ma per questo, il Mondiale 2018. Qualcuno potrebbe pensare che sia un ripetere qualcosa di già detto, ma adesso c’è qualcosa di nuovo, vale a dire il risultato del Gran Premio degli Stati Uniti. La vittoria alata ha assunto le sembianze di Kimi Raikkonen, ammantando di romanticismo le fredde statistiche – dopo 5 anni e 113 GP di distanza dall’ultimo trionfo va a cadere proprio nell’undicesimo anniversario della conquista del suo titolo iridato –  e realizzando la fanciullesca aspirazione degli amanti dello sport puro e vero, coloro i quali avrebbero accettato di perdere il campionato del mondo se il fato avesse offerto loro una vittoria in rosso del finnico esteta della monoespressività. E gli altri? Quanti ci avrebbero puntato, dopo gare in cui il Cavallino, più che nitrire orgogliosamente addosso agli avversari, ragliava in pista navigando fra gomme sgommate, errori strategici, sbandamenti personali, cupe voci di dissidi interni e aggiornamenti miseramente fallaci? E invece la Ferrari risorge ad Austin, vincendo con uno al quale, quando non si sa più cosa inventarsi, gli si dà del Quasi Quarantenne, come se fosse un insulto tipo Zozzone o Foratore Fuorilegge di Dischi e Cerchioni.

All’altro, ahimé, ormai riservano generalmente l’attributo di Pippa Crucca, augurandosi lo scambio immediato con uno a scelta fra Leclerc, Hamilton, Verstappen o mia zia Margherita,  ma questa è un’altra storia.

Che stagione sarebbe stata per la Ferrari se Raikkonen fosse sempre stato in condizione di ambire alla vittoria, con il rendimento personale sfoderato ad Austin, con un disegno strategico deliberato, con una monoposto sempre al livello di quella degli avversari, con la possibilità di impensierire gli avversari diretti come la Mercedes ma anche l’arrembante RedBull a ogni GP? Molto probabilmente una stagione nella quale a rimediare agli errori di Vettel avrebbe potuto pensarci lui, facendo in modo che quei punti seminati in giro – almeno una buona parte -non finissero a germinare nell’orto di Hamilton e Mercedes.

Sarà questa la stagione dei rimpianti? Certamente, perché si aveva una monoposto potenzialmente in grado di dare la vittoria a entrambi i piloti, ma non si è saputo o potuto convertire la potenza in atto e si è dovuto ripiegare su tattiche difensiviste, chiedendo a uno dei due numero uno di restare comprimario a proteggere un risultato. Risultato che, per errori ed episodi vari, spesso nemmeno si è concretizzato, mentre Mercedes archiviava vittorie e podi, facendoci svolazzare davanti il wingman Bottas – sempre pronto e disponibile, c’è da dire – a proprio piacimento.

Come detto all’inizio, questo non è un gioco in cui si spostano le macchinine avanti o indietro su una pista giocattolo e basta: questo è uno sport fondato sull’insieme complesso di uomini e macchine. Nessuno di noi può sapere cos’accade davvero dietro le sgargianti porte scorrevoli dei motorhome, nelle stanze asettiche della progettazione o nel cuore tumultuoso di un pilota, meno che mai io, però mi sento di affermare che una squadra di Formula Uno può iniziare un ciclo vincente quando mette in condizione entrambi i suoi piloti di vincere in tutte le condizioni. Soprattutto quando le cose sembrano mettersi male: com’è successo ad Austin, quando i tempi stratosferici di Hamilton, il pasticcio di Vettel con Ricciardo, Verstappen scatenato e la nefasta Virtual Safety Car facevano presagire il peggio. O come successe anni fa – una vita fa – ad Hockenheim nel 2000 o prima ancora a Melbourne nel 1999.

Quest’anno, la Ferrari ci è arrivata troppo tardi, a giochi ormai chiusi. Non potendo far altro per il 2018, che si guardi avanti, con la giusta serenità, tenendo sempre ben presente che per poter vincere è necessario che… gli altri perdano, cioè sarà necessario superare gli avversari senza commettere errori. Di qualsiasi genere. Senza disperare, però, perché l’arcobaleno arriva solo dopo la tempesta e, ad Austin, Kimi Raikkonen è riuscito perfino a trovare la pentola d’oro.

Fonte: http://feedproxy.google.com/~r/CircusFormula1/~3/RyRQTvLLHgo/raikkonen-vince-ad-austin-ma-per-la-ferrari-il-2018-e-il-campionato-dei-rimpianti.php


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