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    Presentato questa domenica a Paciano (PG) alle 17 il libro “Berrettini, la forza del pensiero” (recensione di Paolo Silvestri)

    Berrettini, la forza del pensiero

    Domenica 11 dicembre, alle ore 17, presso Palazzo Baldeschi a Paciano (PG) sarà presentato dagli autori il libro “Berrettini, la forza del pensiero”, scritto da Valentina Clemente e Marco Mazzoni, pubblicato lo scorso mese da Ultra Sport. L’evento è organizzato dalla libreria Libri Parlanti di Castiglione del Lago, con il sostegno del Comune di Paciano.
    Gli autori racconteranno il concetto del loro progetto editoriale, non una classica biografia sportiva ma un libro che racconta il pensiero, visione, gioco e personaggio Berrettini, descritto insieme alle molte interviste fatte a tecnici, ex giocatori e giornalisti da tutto il mondo (Mark Woodford, Raffaella Reggi, Claudio Mezzadri, Stefano Baraldo, Tatiana Golovin, Alessandro Nizegorodcew, Simon Cambers per citarne alcuni).

    Pubblichiamo di nuovo la recensione del libro, scritta da Paolo Silvestri.
    Solo un anno dopo Momenti di gloria. Storia ed emozioni delle Olimpiadi, Valentina Clemente e Marco Mazzoni tornano ad unire le loro esperienze giornalistiche e le loro brillanti penne in Berrettini. La forza del pensiero (Ultra Sport ed. 2022), un minuzioso ritratto della punta di diamante della straordinaria new wave del tennis italiano maschile. Sanno, con intelligenza, agire come profondi conoscitori del mondo del tennis ma anche, con umiltà, come direttori d’orchestra che danno spazio ad altre voci, in un concerto polifonico di indubbio interesse. A cominciare da Stefano Meloccaro, a cui è affidata la prefazione, sono infatti moltissimi gli esperti che intervengono per contribuire a descrivere i punti forti ed i punti deboli del tennis di Matteo, la sua parabola evolutiva, le sue potenzialità, la sua fragilità fisica, la sua immagine pubblica, ma soprattutto il suo profilo psicologico ed umano, la forza del suo pensiero appunto, come recita il sottotitolo del volume.
    Non è un segreto che il tennis sia uno sport in cui l’aspetto mentale ha un ruolo determinante e, pertanto, un ritratto di un giocatore non può limitarsi ad analisi e valutazioni tecniche. In una intervista di un paio d’anni fa Berrettini sparava questa sorprendente risposta, che può spiazzare chi non lo conosce: “Come mi definirei? Profondo”. Ed effettivamente, sulla base di molte dichiarazioni sue e altrui, affiora il ritratto di un ragazzo intelligente, educato, amante della lettura e del cinema, sempre alla ricerca di risposte. E anche coraggioso, il che non significa, come ben sappiamo, immune da paure e insicurezze. Coraggioso è chi le paure e le insicurezze le sa superare con acume, umiltà forza e determinazione, come Berrettini ha sempre cercato di fare fin dall’inizio della sua carriera insieme al mental coach Stefano Massari, che affianca la guida tecnica di due grandi coach come Vincenzo Santopadre e Umberto Rianna.
    Un percorso di crescita tennistica e umana basato su lavoro, serietà e pazienza, e non esento da quel pizzico di distacco un po’ ironico e sornione tipicamente romano, capace di relativizzare tutto. Matteo, solo per fare un esempio, ama citare una frase che il suo primo maestro Vannini gli diceva prima dei match e che lo ha in qualche modo segnato: “Mal che vada perderai”. A me sembra una frase geniale e assai più profonda di quanto possa sembrare. A proposito di sconfitta, il tennista italiano in più di un’occasione ha parlato della sua utilità sostenendo che, per quanto possa bruciare, è parte necessaria del precorso di crescita di uno sportivo ma, aggiungerei, di qualsiasi essere umano. “Le sconfitte – dice Berrettini – sono più utili delle vittorie perché mi aiutano a imparare. Ho sempre vissuto più intensamente la delusione della sconfitta che la gioia della vittoria. È una cosa che ho sentito fin da giovane e su cui ho lavorato tanto […] Sono convinto al 100% che per arrivare in alto bisogna perdere. Se non provi quella delusione, quella voglia di rivalsa, è difficile che si possa eccellere in uno sport individuale come il tennis”. E lo dimostrano i tantissimi casi, vicini e lontani, di giocatori che hanno vinto tanto (troppo) da ragazzini e che, nel passaggio al professionismo, si sono visti impreparati alla sconfitta, fino a spegnersi.
    Dell’aspetto tecnico e mentale si occupa Marco Mazzoni nel capitolo iniziale Il tennis di Berrettini, con un percorso sulla sua carriera e un’analisi dettagliatissima delle sue principali “armi”, che sono poi i fulcri del tennis moderno (di cui Berrettini è senza dubbio un emblema) vale a dire il servizio e il dritto, nonché l’adattabilità alle diverse superfici e la solidità nella gestione tattica dei match. E lo fa condendo il suo discorso con decine di dichiarazioni di grandi nomi del tennis italiano e non, spettatori o in molti casi attori della storia tennistica e umana di Matteo: da Volandri a Colangelo, da Reggi a Bertolucci, da McEnroe a Wilander, da Santopadre a Massari, solo per citarne alcuni. Questo schema argomentativo è ripreso da Mazzoni nel secondo capitolo, intitolato Potenza e fragilità. Gli infortuni, purtroppo abbastanza esteso, dati i moltissimi problemi fisici di cui è stato vittima e che ne hanno spezzato ritmo e progressione, a cominciare dal più doloroso, quello che lo costrinse al ritiro nel match d’esordio alle ATP Finals dello scorso anno. Alle caviglie fragili si sono sommati il ginocchio, gli addominali, la mano, la schiena, un quadricipite… Predisposizione? Sfortuna? Squilibri nella preparazione fisica? Mali endemici del tennis moderno? Tensione emotiva? Mazzoni cerca una risposta a questi ed altri interrogativi, anche in questo caso con il supporto di noti esperti come per esempio Stefano Baraldo o Rodolfo Lisi.
    La seconda parte del volume, Un impatto visivo e psicologico, è affidato a Valentina Clemente che sonda, ricorrendo al formato dell’intervista a importanti nomi del mondo del tennis di diversi paesi, le impressioni personali sul Berrettini tennista (aneddoti, punti forti, limiti, prospettive, margini di miglioramento, ecc.) ma anche l’eco del Berrettini personaggio nelle rispettive culture di provenienza. Grossomodo la stessa griglia di domande, artificio utile proprio per confrontare le diverse opinioni su alcuni punti specifici, viene sottoposta a noti giornalisti, tecnici ed ex pro come Alessandro Nizegorodcew, Antoine Benetteau, Simon Cambers, Arnaud Cerruti, Tatiana Golovin, Mark Woodforde, Richard Waumsley, Sebastian Fest, conosciuti da Valentina Clemente “sul campo”, nel suo ormai più che consolidato percorso nell’ambito del giornalismo tennistico.
    Definirei Berrettini. La forza del pensiero un bel volume “corale”, senza con questo sminuire assolutamente i meriti del “doppio misto” Clemente-Mazzoni, che offrono il loro punto di vista, ma lo sanno coordinare con eleganza contenutistica e formale con quello di altri esperti e testimoni, senza mai cadere in eccessi retorici o banalità celebrative.
    Paolo Silvestri LEGGI TUTTO

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    Montecarlo: l’insostenibile leggerezza della storia

    Antico manifesto del MCCC

    Il 28 marzo 1983 sembra una data qualsiasi perduta nel passato. Se invece retrocedessimo nel tempo potremmo vedere, sul campo centrale del Country Club di Montecarlo, il giovane e talentoso francese Henri Leconte opposto al grande Bjorn Borg. La crisi dell’Orso è da tempo più che palpabile, per via della schiena malandata, ma ancora di più per la sua crescente difficoltà nel dominare i migliori rivali. Raccontano gli annali che dopo la sconfitta dell’81 agli US Open (la quarta), il campione svedese si sia dileguato prima dell’inizio della cerimonia di premiazione e della conferenza stampa. McEnroe aveva vinto, era il nuovo numero uno e lui non aveva più la motivazione per cercare di detronizzarlo.  A venticinque anni, l’età in cui oggi molti giocatori maturano arrivando poi, in molti casi, fino alla soglia dei quaranta, per lui è l’inizio della fine. Vince ancora a Ginevra prima di chiudere definitivamente la stagione, facendo un’unica apparizione l’anno seguente proprio a Montecarlo, sconfitto ai quarti da Noah. Nell’83 esordisce ancora al Country Club, batte Clerc e poi perde appunto da Leconte, che bisserà il successo al primo turno di Stoccarda, il suo unico match nell’84, quando dirà ufficialmente addio al tennis. Il torneo monegasco, che lo svedese vinse in tre occasioni (’77, ’79 e ’80) è stato lo scenario del suo tramonto, ma anche del suo triste tentativo di rientro nel 1991, incapace, con la sua iconica Donnay di legno, di contenere le palle arrotate dalla Dunlop in fibra di Jordi Arrese.
    Quel 28 marzo del 1983 il sole splendeva su Montecarlo e la brezza marina si insinuava fra le tribune del campo centrale. Ve lo dico con cognizione di causa perché su quelle tribune c’ero anch’io. Mentre con un occhio guardavo Leconte che le suonava a Borg, ormai sicuro di presenziare il declino definitivo di un mito, con l’altro, mobile come quello di un camaleonte, vagavo intorno, un po’ verso il mare solcato da misteriosi velieri, un po’ verso la zona Vip popolata da avvenenti monegasche, un po’ verso la terrazza del ristorante, cercando di riconoscere da lontano i campioni che mi facevano sognare…. Ecco Noah!… Vilas!… Wilander!…. Ecco Panatta e Bertolucci davanti a un bel piatto di spaghetti, poco prima del loro match di doppio!… Beh, questo temo proprio di essermelo inventato, ma Montecarlo sembra fatto apposta per far volare la fantasia.
    Il Country Club, sede del torneo dal 1928 è, con tutto il rispetto per l’homo faber americano, l’esatta antitesi di Indian Wells. Da una parte un gigantesco stadio ottagonale, quasi una nave spaziale atterrata nel deserto californiano, dall’altra un piccolo e discreto gioiello dell’architettura Art déco; l’uomo che ha domato e sottomesso la natura, rendendo una zona ostile un paradiso per nuovi ricchi, e il suo vecchio fratello europeo che ha saputo adeguarsi alla natura costruendo, grazie a una struttura a terrazze, una ventina di campi da tennis abbarbicati fra mare e montagna; la spettacolarità ostentata del nuovo millennio e il fascino discreto di una storia antica.
    Come sappiamo, per ripercorrere questa storia dobbiamo risalire alla fine dell’Ottocento, epoca in cui molti britannici, non proprio costretti dalla necessità a guadagnarsi il pane quotidiano, vanno a svernare, a caccia di sole e glamour, sulle coste della Riviera e della Côte d’Azur. Nei loro bagagli non mancano gli attrezzi necessari per praticare l’amato lawn tennis, che viene così progressivamente esportato oltre i confini dell’Inghilterra. Con il tempo si costruiscono i primi campi, spesso annessi ai grandi alberghi di lusso, che poi cederanno il passo ai primi circoli e ai primi tornei. Montecarlo, come anche Bordighera in Italia, è senza dubbio un terreno favorevole perché il nuovo sport attecchisca e il 2 aprile del 1893 viene inaugurato, sul tetto di una dépendance dell’Hotel de Paris, il Lawn Tennis de Monte-Carlo, poi spostato in diverse zone del Principato fino a dare origine, nel 1925, all’attuale Country Club, situato nel comune limitrofo di Roquebrune-Cap Martin. Non tutto è romanticismo e chi ne volle la costruzione fu, guarda un po’, proprio un homo faber americano, tale Pierce Butler, intraprendente uomo d’affari e grande appassionato di tennis, spinto dal desiderio di offrire alla diva francese della racchetta Suzanne Lenglen uno scenario degno della sua caratura, progettato dall’architetto parigino Charles Letrosne.
    Già nel 1897 si organizza la prima edizione del torneo e per una decina d’anni gli inglesi fanno la parte del leone, anzi la fa una sola famiglia, visto che la coppa passa alternativamente dalle mani di Reginald Doherty a quelle del fratello Laurence, conosciuti all’epoca come “Big Do” e “Little Do”.  A questi cominciano poi ad affiancarsi giocatori di altre nazionalità, come il neozelandese Anthony Wilding, che vincerà cinque edizioni prima di morire tragicamente sul fronte durante la Grande Guerra. Riesumare l’albo d’oro di un torneo come questo è un modo per ripassare l’evoluzione del circuito -a cominciare dalla nascita dell’Era Open ed il superamento della frattura professionismo/dilettantismo- e soprattutto per rispolverare i nomi dei protagonisti: si trovano un po’ tutti i grandi terraioli (specie ormai di fatto estinta), fino ad arrivare naturalmente al dominio di Nadal, campione undici volte e “colpevole” di aver sbarrato la strada in tre finali consecutive a Fererer, il più celebre assente nell’elenco dei vincitori.
    E gli italiani? Nel ’22, dopo l’interruzione bellica, vinse un ex calciatore del Genoa, il conte Giovanni Balbi di Robecco, un nome che pare uscito dalla penna di Paolo Villaggio. Il tennis era ancora uno sport elitario da figli e figlie di papà, anche se le cose presto sarebbero fortunatamente cambiate, dando spazio a campioni di origini popolari. È il caso di Giovanni Palmieri, il secondo italiano ad alzare, nel 1935, la coppa di Montecarlo, che ha una storia poi sentita tante volte: raccattapalle al Circolo Parioli, di cui poi diventerà custode, allenatore e sparring dei soci e infine, grazie ad un’esenzione federativa che lo “riqualifica” come dilettante, giocatore nel circuito. Ho voluto ricordarli perché il loro nome è stato offuscato dai meritatissimi successi più recenti di Fabio Fognini nel 2019 e, prima dell’Era Open, di Nicola Pietrangeli (‘61,’67,’68), che qui è a dir poco di casa e che è da sempre un ospite fisso delle tribune e delle attività sociali e festaiole che accompagnano la settimana tennistica del Principato. Di quell’atmosfera romantica del tennis che fu, forse un po’ mitizzata dalla lontananza nel tempo, è anche testimone Lea Pericoli, altro ospite fisso a Montecarlo, dopo aver partecipato in innumerevoli occasioni come giocatrice. Sì, perché forse non tutti sanno che il torneo di Montecarlo ha avuto anche, dal ’47 all’82, una versione femminile, prima dilettantistica e poi regolarmente inserita nel circuito WTA. Nell’albo d’oro del singolare figurano anche Annalisa Ullstein Bossi (’49), Annalisa Bossi Bellani (’57) e Silvana Lazzarino (’54), che in coppia proprio con la Pericoli vinse anche il doppio per tre volte consecutive (dal ’64 al ’66).
    A proposito di doppio: se avessi la possibilità di presenziare dal vivo un match riesumato dalla storia di questo torneo posizionerei l’orologio della mia macchina del tempo su un altro giorno di una lontana primavera, il 31 marzo 1980. Avrei un posto privilegiato in una tribuna Vip a bordo campo e mi godrei la vittoria di Panatta e Bertolucci ai danni di McEnroe e Gerulaitis. Poi un Martini ghiacciato sulla terrazza panoramica del Country Club, coquillages con champagne nel mitico ristorante Le Pirate e, dopo il tradizionale party con i giocatori, le ore piccole al Jimmy’z. Montecarlo sembra fatto apposta per far volare la fantasia.
    Paolo Silvestri LEGGI TUTTO