Ogni volta che si verifica un grave incidente, il motorsport si esibisce in contorsionismi ideologici e mentali degni di una clinica psichiatrica. Da un lato i freddi, impassibili realisti, coloro i quali perseguono il buonsenso, dall’altro i moralisti e coloro i quali perdono il lume della ragione.
L’incidente occorso a Romain Grosjean durante il primo giro del GP del Bahrain rimarrà per sempre scolpito nella memoria del pubblico appassionato e degli addetti ai lavori. Un incidente le cui dinamiche appaiono irripetibili, più uniche che rare. Sbattere contro il guard-rail interno, in quel tratto di pista, è — appunto — un evento più unico di una nevicata sulla Riviera Maya in piena estate.
Partiamo dall’analisi tecnica, dai dati fattuali. La Haas VF-20 ha fatto il proprio dovere. E bene. La vettura realizzata dalla Dallara, all’impatto con il guard-rail, si è letteralmente disintegrata, spezzandosi in due. Un fatto normale. Scocca da una parte, retrotreno dall’altra. Normale, al contempo, che un guard-rail subisca, in tali condizioni, il danno che abbiamo avuto modo di constatare.
L’urto è stato devastante: la monoposto condotta da Grosjean ha subito una decelerazione pressoché istantanea, passando da oltre 200 km/h (circa 220 km/h) a 0 km/h in un battito di ciglia. Il picco istantaneo di decelerazione è stato pari a 53 g.
Nulla se messo in confronto con quanto David Purley subiva nel 1977, in occasione delle pre-qualifiche del GP di Gran Bretagna (Silverstone). In quella circostanza, la LEC CRP1-Cosworth condotta dal pilota inglese passava da una velocità di poco oltre i 170 km/h a 0 km/h in meno di 70 cm. Il picco di decelerazione era pari a circa 180 g. Purley riporta fratture multiple ma sopravvive. La LEC si era accartocciata su se stessa. Le scocche dell’epoca, ricordiamo, erano in pannelli di alluminio.
La complessa scocca in materiali compositi della Haas (e di tutte le F1) — benché provata, scalfita e danneggiata dal tremendo urto contro il tagliente guard-rail— ha retto ottimamente; l’energia cinetica dell’impatto — nonostante la istantanea decelerazione della vettura — correttamente dissipata.
A salvare la vita al pilota della Haas è stata, senza dubbio, la presenza dell’HALO. Il discusso dispositivo ha fatto ciò per cui è stato progettato e introdotto: proteggere la testa del pilota in questi rari incidenti. È un innegabile dato di fatto: senza HALO, verosimilmente, Grosjean non sarebbe sopravvissuto.
Quello stesso HALO, tuttavia, che in altre circostanze può rivelarsi un autentico intralcio. Basti pensare ad un capottamento, in condizioni ben più critiche di quelle occorse a Lance Stroll in Bahrain: la struttura dell’HALO potrebbe non agevolare l’uscita del pilota dall’abitacolo in tempi rapidi. Due facce della medesima medaglia…
Il merito, dunque, non va alla sola Dallara ma ai regolamenti FIA in fatto di costruzione della cellula di sopravvivenza, ai quali debbono sottostare tutti i costruttori impegnati in F1. Se al posto della Haas ci fosse stata una qualsiasi altra monoposto di F1, l’epilogo non sarebbe cambiato.
Se è più che raro assistere ad un incidente in quel tratto di pista (praticamente rettilineo), è ormai altrettanto raro assistere a vetture che penetrano le maglie dei guard-rail, in disuso (o debitamente protetti da apposite barriere) nei circuiti permanenti in corrispondenza delle autentiche vie di fuga. Insomma, siamo in presenza di un incidente tanto agghiacciante quanto, oggigiorno, pressoché irripetibile. E, in quanto tale, legittimamente impressionante.
E non deve nemmeno sconvolgere l’incendio propagatosi violento e potenzialmente mortale a seguito del micidiale impatto. Un simile urto — senza tanti giri di parole — disintegra la vettura: un mix incandescente e altamente infiammabile di carburante (miscela alcol-benzina), olio motore, lubrificanti, componenti elettriche, accumulatori di energia (ad iniziare dalle batterie del sistema ERS…) capace di innescare una autentica esplosione. In questo caso, non ci sono prove crash e prove a carico statico che tengano.
A tal proposito, occorre mettere in discussione le motorizzazioni ibride, inutilmente rischiose e mal gestibili sotto molti aspetti. Motorizzazioni emanazione della demagogia “ambientalista-elettrificata” oggi in voga (e quindi difficilmente sacrificabili…) ma che, concretamente, non aggiungono nulla ai contenuti tecnici della F1.
Persino il più che sicuro serbatoio del carburante adottato in Formula 1 può subire ingenti danni a seguito di un simile impatto. Qui, trovate i principali articoli estrapolati dal Regolamento Tecnico F1 2020 inerenti al serbatoio del carburante.
Le indagini FIA saranno approfondite. Vedremo se e quali modifiche verranno apportate alle monoposto di F1 e ai circuiti, in particolare ai guard-rail e al loro posizionamento. Parliamo di modifiche: non sempre, infatti, queste modifiche si sono tradotte e si traducono in migliorie, specie quando in ballo vi è la sicurezza o presunta tale. Il rischio — alto — è la tipica, classica isteria collettiva, la quale ha già prodotto uno scadimento del “prodotto” Formula 1 e, più in generale, del motorsport. Il rischio di “deriva demagogica” è, in questi casi, molto alto. E chi ha vissuto appieno i mesi, gli anni post Imola 1994 sa bene a cosa ci riferiamo…
Insomma, solo per citare un esempio, dalle vie di fuga più ampie all’assillo degli odiosi “track limits” è un attimo…
I gravi incidenti scatenano polemiche, alzano polveroni, spesso ingiustificati. Ma, specie oggi, fanno tornare coi piedi per terra. Stiamo vivendo, infatti, un momento storico nel corso del quale le cronache della F1 (ma più in generale del motorsport) vengono letteralmente ridicolizzate e quotidianamente svilite da appassionati, tanto giovani quanto improvvisati e sprovveduti cronisti e addetti ai lavori stessi.
Cronache che ci raccontano solo ed esclusivamente di inflazionati e tristi meme, di cani che attraversano la pista, di Roscoe e compari umanizzati protagonisti delle frivole, stucchevoli, patetiche vicende social di piloti e team, di glamour, di “outfit” alla moda, di treccine e tatuaggi, di piloti sempre meno piloti e sempre più “influencer”, di frasi fatte, di sedicenti e strumentali battaglie sociali, di finti, paraculi e artefatti hashtag, di caschi speciali, di arcobaleni e altre amenità.
No, signori, non ci siamo. Il motorsport non è una partita di ping pong, non è una pagina social tutta apparenza e zero sostanza, non è il palcoscenico del sudicio politicamente corretto imperante.
Il motorsport è una cosa tremendamente seria. Sì Svago, sì passione, sì divertimento, sì festa, ma tutto inscritto in una cornice unica, inimitabile, che solo altri pochi sport possono sfoggiare e vantare: uomini e macchine che sfidano i propri limiti, uomini che giocano a dadi con la morte.
La prova di questo “politicamente corretto” imperante è quanto dichiarato da Daniel Ricciardo. Il pilota della Renault, infatti, denuncia l’eccessiva “spettacolarizzazione” dell’incidente occorso a Grosjean. La regia, secondo l’opinabile opinione dell’australiano, avrebbe indugiato troppo a lungo con i replay dell’incidente.
La realtà, però, non è quella descritta da Ricciardo. Esiste, infatti, un diritto di cronaca. Un sacrosanto diritto di cronaca. Il motorsport, che piaccia o no, contempla incidenti, anche cruenti, anche mortali. Circostanze che vanno documentate, al pari di un podio, di un pit-stop o di un semplice testacoda.
Ma è la stessa regia internazionale a cadere nella (parziale e iniziale) censura. I filmati relativi all’incidente, infatti, sono stati trasmessi solo quando Grosjean è uscito illeso dai rottami della propria Haas.
Domanda: e se Grosjean fosse deceduto, non avremmo mai visto alcun filmato o alcuna foto? Questa si chiama censura. Ingiustificabile censura.
L’incidente di Grosjean costituisce un aspetto tanto spietato quanto reale del motorsport. Un aspetto sovente dimenticato, soffocato dalla frivolezza delle odierne cronache, da vetture che sembrano indistruttibili, da piloti che troppo spesso sembrano fluttuare in un mondo patinato fatto solo di Instagram, scenette social, vuoti slogan e caschi speciali, da circuiti sempre più sicuri, molti dei quali anonimi, persino stucchevoli e noiosi tanto riescono a perdonare il minimo errore di guida.
La sicurezza (come, purtroppo, la demagogia…) ha fatto passi da gigante. Si chiama progresso, evoluzione tecnologica. Come sempre avvenuto: è sufficiente contestualizzare le varie epoche per afferrare tale, basilare concetto. Il concetto di sicurezza non nasce nel 1994 né con HALO.
In passato, il rischio di rimetterci la pelle era innegabilmente più alto rispetto ad oggi. Abbiamo tutti negli occhi le immagini, le foto degli incidenti occorsi a Lorenzo Bandini, Jo Schlesser, Jochen Rindt (il cui incidente mortale presenta affinità con quanto accaduto a Grosjean), Jo Siffert, Roger Williamson, Niki Lauda, Ronnie Peterson, Riccardo Paletti, Gerhard Berger, solo per citare i più ricorrenti, indelebili momenti di una Formula 1 così amata e rimpianta quanto maledettamente spietata.
Il fuoco, in particolare, costituiva un ricorrente demone.
Incidenti che hanno portato via con sé vite. Incidenti gravi che, al contrario, hanno avuto lieti fini. Lauda, miracolato in quel del Nürburgring grazie al tempestivo intervento di alcuni, valorosi colleghi; Berger, scampato al rogo di Imola 1989 (vettura spezzata in due); Michele Alboreto, anche lui “vittima” del Tamburello (vettura disintegrata e incendio) nel corso di alcuni test nel 1991 (Footwork FA12).
Ma anche il già citato David Purley, colui il quale nel 1973 cerca — invano — di salvare la vita a Williamson e, nel 1977, esce vivo da uno degli incidenti più cruenti e devastanti che la storia della F1 ricordi. Contrariamente a quanto si pensi, anche in passato si poteva uscire vivi da incidenti potenzialmente mortali.
Frivolezza, incontenibile voglia di ridicolizzare: ed ecco che anche l’incidente di Grosjean è, in queste ore, terreno fertile per cuoricini, lacrimevoli emoji, frasi fatte, strampalate analisi tecniche e storiche che lasciano il tempo che trovano in salsa “se c’era HALO, Tom Pryce non sarebbe morto”.
I dati fattuali sono pochi e ben individuabili.
1) Le odierne vetture da competizione (F1 comprese) sono altamente sicure grazie ad un continuo (e in questo senso apprezzabile perché sensato e mirato) lavoro sui materiali e sulle prove crash e a carico statico.
2) Il motorsport era, è e sempre sarà uno sport in cui la “componente rischio” non potrà mai essere eliminata e azzerata. E, detto senza peli sulla lingua, è un bene.
3) L’incidente di Grosjean rientra in quella categoria di circostanze più uniche che rare. Imponderabili, non prevedibili, non gestibili secondo una reiterata e scientifica casistica. Come la morte di Senna, la quale è stata solo ed esclusivamente frutto di un “accidente” unico nella storia del motorismo, un “accidente” che nulla aveva a che fare con le prestazioni e la sicurezza delle allora vetture. Ma la demagogia, si sa, ha cavalcato questo tragico evento…
4) HALO ha salvato la vita di Grosjean. Se da un lato questo dispositivo di sicurezza risulta, sotto molti aspetti, controverso e ancora lungi dall’essere perfetto (il traguardo, probabilmente, è arrivare ad abitacoli integralmente chiusi e ben integrati al resto della vettura come avviene per i Prototipi), in simili circostanze può rivelarsi determinante. Un dispositivo certamente non bello a vedersi, poco (o per nulla) utile contro detriti che possono penetrare attraverso le ampie aperture ma, senza dubbio, ben concepito e salvifico in simili pur rare circostanze.
Analisi, controanalisi, moviole, sentenze. La speranza è che si giunga ad una semplice, elementare, logica conclusione: Motorsport is dangerous. Prendere o lasciare.
Fonte: http://feedproxy.google.com/~r/CircusFormula1/~3/MQQSQyhvNjA/f1-fuoco-e-fiamme-a-sakhir-il-volto-spietato-e-reale-del-motorsport.php