Quando nel torneo di Rotterdam Jannik Sinner ha incamerato il primo set nella finale che lo vedeva opposto a Daniil Medvedev, è stato impossibile non pensarci. Trattenere il filo dei ricordi. 1991… Stesso campo, un altro italiano in finale: Omar Camporese a vedersela con Ivan Lendl. Omar da circa sei mesi aveva casa tennistica a Le Pleiadi di Moncalieri, un tiro di schioppo da Torino, per trovare condizione e pace che potessero farlo definitivamente sbocciare.
Tra il Po e la ferrovia, il presidente de Le Pleiadi, Carlo Bucciero, aveva preso a dar corpo al suo sogno. Dapprima aveva accolto Iaio Baldoni, reduce dalla finale ottenuta agli Assoluti, ma poi era giunto Riccardo Piatti coi suoi “boys”: Cristiano Caratti, Renzo Furlan e Ghigo Mordegan, ai quali dopo un po’ si sarebbe poi aggregato anche il quarto “fratello”, Cristian Brandi. Piatti era fuoriuscito dalla FIT, visto che i suoi ragazzi – tranne Furlan – ormai non rientravano più nei piani federali, piani poco propensi allora ad occuparsi degli over 18. Erano anni davvero molto diversi dagli attuali, dove l’iniziativa privata era vista più come un’ingerenza quasi indebita nel potenziale sviluppo dei campioni, niente a che vedere con quanto saggiamente oggi si fa.
I ragazzi di Piatti, considerati quasi degli scarti del Centro Federale di Riano, sotto le cure tecniche di Riccardo e quelle atletiche fortemente innovative di Pino Carnovale, si trovarono ad avere condizioni ideali per completare il percorso di crescita: un club a totale disposizione, supporto logistico e mezzi per cominciare a viaggiare, un brand – Bredford – creato dal nulla a corredo. A ripensarci, sarebbe da riproporre per intero ciò che Carlo Bucciero, con le sue sole forze e un entusiasmo senza pari, seppe mettere in atto, anche se poi molto si fece per aiutarlo a fallire. E sì, quello che si faceva a Moncalieri dava veramente tanto fastidio, visto che gli “ scarti” cominciavano pure a vincere.
Il primo a far intendere che straordinario lavoro si stesse iniziando a fare a Moncalieri fu Cristiano Caratti, autore di una buona stagione estiva negli States, dove a New Haven aveva battuto l’allora n° 6 al mondo Brad Gilbert, per poi arrivare al terzo turno degli U.S. Open, ma soprattutto capace di cogliere i quarti agli Australian Open 1991, mancando d’un soffio l’accesso alle semi, sconfitto al quinto da Patrick McEnroe, dopo aver battuto, tra gli altri, Richard Krajicek.
Il “tennis ping-pong” di Caratti (venne definito così da Gianni Clerici per la straordinaria capacità di Cristiano di giocare d’anticipo, sfruttando grandi appoggi e baricentro basso, ai quali univa, in discese a rete controtempo, inusitati “schiaffi al volo”) aveva il vento in poppa, tanto che, appena tornato dall’Australia, raggiunse la finale al Muratti Time di Milano, un torneo che equiparato agli odierni, varrebbe almeno un ATP 500.
Caratti, prima di arrendersi in finale a Volkov, si prese il lusso di battere, in un match memorabile, Ivan Lendl, allora 3 al mondo: l’attacco di Cristiano sul match point, la stop volley definitiva sono ancora qui negli occhi: semplicemente indimenticabili.
Per Camporese le cose a Milano non andarono nel modo previsto. Sì, in coppia con l’amico Goran Ivanisevic avrebbe incamerato il titolo in doppio, ma in singolare, opposto al primo turno a Diego Nargiso, s’era incartato in un match che non voleva saperne di decollare per il giusto verso, e alla fine Omar s’era ritrovato ancora una volta a leccarsi le ferite. Il ricordo di quell’incredibile incontro giocato e perso poche settimane prima contro Boris Becker agli Australian Open, chiusosi con un pazzesco 14 – 12 al quinto per il tedesco, dopo che il nostro era riuscito a risalire da due set sotto, rifilare un memorabile 6-0 nel terzo, per poi arrendersi solo dopo oltre 5 ore di gioco, sembrava definitivamente svanito. Dov’era finito quel “giocatore incredibile”, come gli aveva sussurrato all’orecchio Boris?
Era dal match di Coppa Davis giocato a Cagliari l’anno prima contro la Svezia che le cose non giravano mai come avrebbe desiderato. Nessuno gli aveva riconosciuto il fatto che aveva lottato come un leone nel primo giorno contro Mats Wilander, perdendo soltanto al quinto e di misurissima: gli ricordavano solo che avesse ceduto di schianto a Svensson in un match che avrebbe potuto e dovuto portare a casa.
Come detto, casa l’aveva però trovata a Le Pleiadi e gli allenamenti alla corte di Bucciero e Piatti avrebbero dovuto sfociare nella stagione ’91 in risultati continui e confortanti. Melbourne l’aveva lasciato intendere e Milano sembrava la piazza giusta per confermare le ottime cose viste “Down under”, ma non si rivelò tale. Omar, dopo la sconfitta patita contro Nargiso, si aggirava come un leone in gabbia nei corridoi del Forum di Assago. Era seguito da Stefano Lopez dell’IMG e Fabio Della Vida che provavano a rincuorarlo, ma non c’era verso. Quando Carlo Bucciero gli ricordava che avrebbe dovuto prepararsi per Rotterdam, la risposta era una sola: – Io in Olanda non ci vado! A Rotterdam non ci voglio giocare, chiaro?! –
Come Dio volle però alla fine, dopo un paio di settimane di sbollitura, riuscirono a imbarcare Omar su un volo, accompagnato da Gigi Bertino, il quale, dopo appena un paio di giorni, prese a mandare report preoccupanti. Sembrava che il nostro facesse apposta a provare a fare (in vero inutilmente…) il contrario di quello che gli si diceva.
A cena, tempo di ordinazioni, Camporese chiedeva una birra e “junk food”. Bertino cercava di farlo ragionare, gli diceva che quella birra non si doveva e poteva bere e che la sua dieta prevedeva ben altro. Alla fine, dopo un po’ di tira e molla, la ragione prevaleva: acqua e cibo sano venivano ingoiati tra qualche mugugno, ma venivano ingurgitati solo rimarcando che, se mai ci fosse stata ancora un’altra sera e un’altra cena, si sarebbe fatto come diceva lui. L’arrivo a metà settimana di Fricky Chioatero, in sostituzione di Bertino, non sembrò migliorare le cose, pur con tutta la buona volontà che Fricky ci stava mettendo. Ogni sera stesso ristorante e stesse scene, con la birra che immancabilmente finiva rovesciata da Chioatero nel vaso di una disgraziata pianta che, poveraccia, stava lì in un angolino a tiro. Ma tra una protesta e l’altra Camporese prese a vincere senza fermarsi più. Prima fece fuori lo scorbutico austriaco Antonitsch, poi Karel Novacek, quindi il beniamino di casa Paul Haarhuis in semifinale.
Il solito ristorante e la solita birra versata, peraltro senza mai berne una goccia, divennero gesti scaramantici e portarono bene. Eccome se portarono bene.
Il diritto di Omar faceva sfracelli e prese a portar via gli avversari come aveva sempre sognato, e ogni volta sulla racchetta dei malcapitati arrivava un peso di difficile gestione e digestione. Il servizio non solo garantiva percentuali sempre più interessanti, ma diventava devastante nel vero senso della parola. Anche il rovescio, che nell’arsenale del nostro non era certamente l’arma più fidata, prendeva a praticare geometrie apprezzabili tanto da consentire a Omar di reggere botta nello scambio fino a che poteva girarsi sul diritto ed esplodere inside out di rara potenza e bellezza.
La finale non iniziò proprio come si sarebbe desiderato: 6-3 iniziale per Lendl che sembrava giocare in totale sicurezza. Persin troppo sicuro.
La musica infatti cambiò nel corso del secondo set. Camporese prese scioltezza e fiducia, e se anche non riusciva a piazzare allunghi decisivi, rimaneva saldamente nel match, tanto che Lendl prese a dar qualche segno di insofferenza, anche se mascherava e si continuava a leggergli negli occhi la certezza che, dopo il match perso a Milano con Caratti, a Rotterdam non avrebbe potuto perdere con un altro italiano.
Ma Camporese bastonava sempre di più e sempre meglio col suo diritto e ora sapeva presentarsi a rete con continuità e notevole autorità. Il tiebreak della seconda partita si risolse a favore del nostro per un nonnulla e la terza frazione si aprì con Lendl che prese a smaniare, visto che non gli riusciva di scrollarsi di dosso il giocatore bolognese. Lendl, cosa davvero rara, prese pure a commettere errori non forzati, inusitati per lui, accompagnati da scuotimenti del capo sempre più frequenti.
Il match si risolse con un nuovo tiebreak, nel quale Camporese dapprima resistette per poi issarsi a match point. Fallì la prima occasione, poi, su uno scambio che sembrava perso, Lendl fece una cosa che mai ci saremmo aspettati da lui: su un recupero all’ultimo respiro di Camporese, la palla gli giunse comoda comoda nei pressi della rete, dal lato del rovescio, si girò sul diritto e, quando tutti si aspettavano che sparasse come suo solito una bordata “alla Lendl”, toccò invece la palla piano, una sorta di smorzata improbabile. Omar sembrò incredulo, poi con un scatto in avanti giocò il più facile dei rovesci a campo vuoto e la vittoria fu sua.
Durante la premiazione riuscì solo a dire: “Probabilmente sto ancora sognando…”, invece era tutto vero e da lì in avanti nacque una storia diversa che l’avrebbe issato al n° 18 al mondo, a vincere a Milano, a diventare davvero “il giocatore incredibile”, come Boris Becker aveva dovuto ammettere dopo aver rischiato l’osso del collo in ben due occasioni, a Melbourne e in poi Davis, sfangandola sempre solo al quinto.
La palude di Maceiò, quel maledetto incontro col Brasile giocato su una spiaggia, l’operazione che gli aprì il gomito come un’arancia non erano ancora all’orizzonte, e Omar poté finalmente lasciarsi andare. Come? Solito ristorante e solita ordinazione, ma questa volta la pianta tirò un sospiro di sollievo: la birra finì da un’altra parte. Com’era giusto che fosse.
Elis Calegari