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    Andrea Argenta è tornato: “Sono pronto per giocarmi le mie chance”

    Di Roberto Zucca
    Ricominciare. Esattamente da là, in Superlega, da dove qualche anno fa aveva iniziato a spiccare tra una folta lista di concorrenti per il ruolo. Se Modena ha costituito il trampolino di lancio di Andrea Argenta, l’Itas Trentino potrebbe essere la conferma che aspettava da tempo:
    “È una bella occasione per tornare in Superlega. Ho ricevuto qualche proposta per salire di categoria dopo Calci, ma ho scelto Trento perché è una piazza importante che rispondeva a quelli che erano i miei desideri, ovvero ritornare in una squadra ambiziosa e farmi trovare pronto per giocarmi le mie occasioni”.
    Non sarà semplice, visto che sarà il secondo di Abdel-Aziz, che è stato il colpo di mercato di Trento.
    “È un giocatore molto forte, che ha fatto un bel percorso a Milano ed è a Trento con la voglia di continuare a far bene. Non vivo la competizione con Nimir, anzi, sarà uno stimolo per fare ancora meglio durante tutta la settimana in palestra”.
    Lorenzetti negli anni ha fatto crescere molti giovani talenti. Punterà anche su di lei?
    “Lo spero. Ancora non abbiamo avuto modo di entrare in campo e di conoscerci meglio, perché in questi primi giorni ci siamo allenati in palestra e in piccoli gruppi. Ma è un allenatore che ha coltivato tanti atleti. Penso anche al percorso fatto da Giannelli con lui ma anche a ciò che ha fatto negli anni di Modena. Ho delle sensazioni molto positive”.
    Come sarà la Trento di quest’anno?
    “Ambiziosa, come tutti gli anni. Non si è tirata indietro durante la campagna acquisti e ha scelto degli elementi importanti per sostituire delle pedine altrettanto importanti delle passate stagioni. Sarà un anno nel quale potrà dire la sua e puntare a traguardi importanti. Ci sono squadre molto ben attrezzate, ma Trento lo è altrettanto. Siamo un bel gruppo”.
    Un bilancio dell’esperienza passata a Calci?
    “Avevamo costituito una bella amalgama tra di noi ed è stato molto triste non poter portare il progetto a compimento a causa dello stop. È stata una bella esperienza. Non tutti gli anni li ricordo bene come questo appena trascorso. Calci era un bel progetto”.
    Sarebbe rimasto in A2 volentieri se tutto questo non fosse successo?
    “Visto come sono andate le cose, cioè con la fine del progetto di Calci, era naturale ripartire altrove. Magari avremmo potuto centrare la Superlega e chissà cosa sarebbe successo in quel caso. Comunque, tenevo molto a ricominciare l’anno in una formazione come Trento”.
    Cosa sarà per lei? L’anno della svolta?
    “L’anno della ripartenza. Poi il destino è beffardo, alle volte. Quindi per ora dico che cercherò di fare il mio. Tutto ciò che arriverà è ancora troppo presto per dirlo”. LEGGI TUTTO

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    Aimone Alletti lancia Taranto: “Voglio riportare la Puglia dove merita di stare”

    Di Roberto Zucca
    La sua discesa in Serie A2 è stata accompagnata da un tripudio di saluti, soprattutto perché il suo approdo alla Prisma Taranto, terra pugliese e squadra corazzata quanto basta per presentarsi in lizza per la Superlega del 2021, è sinonimo di ambizione. Aimone Alletti sin dalle prime battute si è mostrato molto entusiasta della scelta fatta:
    “Sono stato accolto sin dalle prime ore con molto entusiasmo dal presidente Bongiovanni e da Elisabetta Zelatore che hanno obiettivi ambiziosi con la Prisma. Mi ritrovo assieme a un grande amico come Simone Parodi, con il quale faremo questo salto in A2, senza rammarico rispetto al fatto di non essere in Superlega”.
    Possiamo però dire che vorrebbe ritornarci velocemente?
    “(ride, n.d.r.) Certo! Non solo per un obiettivo personale ma per regalare ad una regione come la Puglia una piazza che si merita. Non sarà assolutamente semplice centrare l’obiettivo. Dopo la nostra presentazione, anche Castellana, nostra outsider e vicina di casa ha cominciato ad annunciare dei grandi nomi. Idem Siena, Bergamo e Cuneo, che si sono attrezzate per essere competitive anche quest’anno”.
    Non sarà facile però opporsi contro una Taranto che ha Alletti e Parodi come punte di diamante.
    “Be’, sicuramente chi si ritroverà davanti Taranto darà il 200% e saranno delle grandi battaglie contro molte compagini. Il livello della A2 negli ultimi anni è cresciuto molto, non solo perché sono diminuite le squadre di Superlega ma perché ci sono nuove squadre e graditi ritorni che scrivono dei bei progetti. Taranto è uno di questi”.
    Lo scorso anno lo ha vissuto in maniera molto particolare.
    “Sì. E posso dire che è un ricordo sempre più lontano. È arrivato tutto improvvisamente e trovarsi dalla sera alla mattina ad avere il 50% delle possibilità di dover interrompere la carriera è un qualcosa che all’apparenza può destabilizzare”.
    Mi dica la verità: ha davvero pensato che la carriera potesse finire da un momento all’altro?
    “Era una questione delicata. Nel senso che ho fatto accertamenti su accertamenti per scongiurare il pericolo. È stato un momento molto particolare. Mi ritrovavo a bordo campo a non potermi allenare di punto in bianco, e a casa a ripensare che avrei dovuto lasciare la pallavolo. È un periodo che a mente fredda mi è servito per rimettere in discussione le priorità della vita”.
    Cosa si porta dietro?
    “Intanto tutto il periodo, perché poco dopo il mio ritorno la pallavolo si è bloccata per l’emergenza Covid. In quel frangente è aumentata la mia consapevolezza che le cose importanti sono la mia famiglia, la salute di mia figlia. Poi il resto viene in secondo piano”.
    Perché è entrato nel board dell’Associazione Pallavolisti?
    “Perché credo ci fosse bisogno di un organismo a tutela di noi giocatori. E perché penso debba esistere un organo rappresentativo del nostro lavoro e della nostra professionalità. È un’associazione che nasce per accompagnare l’atleta in tutte le fasi, dall’inizio alla fine della carriera”.
    Lei, alla fine della carriera, ci pensa già?
    “Talvolta. Ma per ora non ho una strada ben definita. Mi piacerebbe rimanere nell’ambiente e seguire il dietro le quinte di questo sport in una società. Se così non fosse, mi piacerebbe lavorare in famiglia, magari in Liguria dove vive la famiglia di mia moglie. Se ne è parlato e i presupposti ci sono. Ora però mi prendo un po’ di tempo per scegliere. Ma nel frattempo torno in campo!”. LEGGI TUTTO

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    Federico Tosi cambia vita e sceglie Pontedera: “Voglio essere davvero… libero”

    Di Roberto Zucca
    Questa non è la storia di una semplice scelta pallavolistica. È la storia di una scelta di vita, che tocca la pallavolo in tutte le sue corde e in qualunque sfumatura essa rappresenti anche l’esistenza di una persona. È la storia di Federico Tosi, un ragazzo e un atleta eccezionale che negli ultimi anni ha vissuto lungo un filo rosso di emozioni, e di momenti, che oggi hanno come pista di atterraggio quella dell’Era Volleyball Project Pontedera, un’ambiziosa squadra di Serie B, nella quale Federico rappresenta la speranza per qualcosa di più di un semplice campionato di categoria.
    Federico, partiamo dalla scelta di Pontedera.
    “Una scelta fatta per una sola ragione: la serenità. Ho giocato un’ultima stagione a Calci, in serie A2, dopo aver disputato molti anni in Superlega. Mi sono riavvicinato a casa, ne ero felice. È la prima volta che tornavo a casa dai tempi di Santa Croce, dei miei esordi. È andata bene dal punto di vista personale, perché sono rientrato a pieno regime con un ottimo rendimento in crescendo, un po’ meno per il fatto che il campionato si è bloccato in un momento importante”.
    Le chiedo, se è d’accordo, di suddividere questa intervista in vari momenti. Il primo è chiederle del suo presente e del mercato di quest’anno.
    “Ho ricevuto una proposta dalla Superlega, di cui ero entusiasta, con una squadra del Nord. Ma che, a seguito del lockdown e del mercato che ha poi portato avanti, non si è concretizzata. Ho avuto poi una sola offerta da parte della A2 ma ho deciso di non accettare. Principalmente perché, dopo quello che ho passato negli ultimi anni della mia carriera, desideravo sposare una scelta col cuore e non solo per un ingaggio interessante o per una squadra di vertice. Volevo stare bene. Completamente”.
    Il presente. Pontedera.
    “Avevo semplicemente chiesto di allenarmi in estate, perché sono rimasto deluso dal mercato. Mi sono invece ritrovato una sera a cena qualche settimana fa a discutere con i dirigenti di un mio impegno. E di un cambio ruolo. Sarò schiacciatore, in serie B. La prendo come una sfida, non certo come un qualcosa di cui dovermi giustificare. È stata una scelta innanzitutto voluta, per continuare a giocare a pallavolo, anche se ho voglia di rimettermi in gioco come libero molto presto. È stata inoltre una scelta che mi ha semplicemente fatto sentire libero dai fardelli del passato”.
    Di cosa è stato prigioniero, Federico?
    “Della mia ambizione. E dell’aver vissuto male certe scelte della mia vita, certi momenti. Non ne ho mai parlato completamente, ma credo sia arrivato il momento, anche perché credo nel mio piccolo di poter far passare alcuni messaggi che nel mondo dello sport spesso vengono taciuti o messi in secondo piano”.
    Foto Lega Pallavolo Serie A
    Inizi lei.
    “Sono a Città di Castello dal 2012. Raggiungiamo la Superlega dopo una storica promozione. Il secondo anno sempre con amici come Matteo Piano e Jacopo Massari è stato altrettanto fantastico. Era il mio primo in Superlega e raggiungemmo i play off e tanti rimasero piacevolmente colpiti da quella stagione, perché a soli 22 anni giocai delle belle gare, tra cui il 3-0 contro Modena fuori casa. L’anno dopo invece, le cose non andarono così bene. Rinunciai, per il legame che avevo con la società, ad altre proposte e il terzo anno a Castello, che doveva un po’ essere quello della consacrazione, fu l’anno in cui venni travolto da tutto. Finì la stagione, ma nella mia testa l’errore, la fatalità di essere come sceso da un treno in corsa mentre tutti gli altri avevano proseguito il viaggio, mi ha destabilizzato”.
    Passò a Milano.
    “Fu l’anno in cui iniziò tutto. Ricordo che cominciai a pensare a quei momenti, e alle occasioni perse. Ricordo che mi portai dietro quel fardello ingombrante, e che qualcuno iniziò a notare che qualcosa non andava. Fuori dal campo soffrivo molto per quei pensieri e se c’è una persona che devo ringraziare per avermi fatto staccare è senza dubbio Federico Marretta, un compagno e un amico che da quei pensieri mi portò via e mi aiutò ad affrontarli anche solo con una chiacchiera e una condivisione. La stagione in sé fu molto buona, sia dal punto di vista tecnico sia per i risultati in campo che arrivarono, nonostante i tanti infortuni della squadra durante la stagione. Da parte mia ci fu qualche momento di instabilità che ha pesato sul giudizio della società e a fine stagione decisero di non confermarmi. Si diffuse la voce, messa in giro da qualcuno, che non ero in condizioni di stabilità perfette e questo mi danneggiò senz’altro”.
    Nonostante questo arrivò la chiamata di Perugia.
    “Una squadra che partì con la perdita momentanea di Atanasijevic. Era un dream team, che non garantiva i risultati sperati dalla società e dalla presidenza. Io e Andrea Bari fummo al centro di numerose critiche, perché gran parte di quelle mancate performance brillanti lo si attribuì alla scelta dei liberi. Commisi un errore che mi costò caro, ovvero quello di iniziare a curarmi troppo di ciò che leggevo sul mio conto. Soffrivo le frasi e la cattiveria che veniva fuori da qualche blog di settore, soffrivo le voci di un possibile mercato di riparazione, tanto che quando arrivò Bernardi, chiesi subito se volessero mandarmi via”.
    Ufficio Stampa Latina
    È vero che Bernardi la aiutò?
    “Moltissimo. È stato uno degli allenatori migliori che abbia potuto trovare sulla mia strada. Lollo mi disse che per lui andavo bene, anzi, che voleva valorizzarmi sempre di più, e che le sue scelte erano libere e mai viziate da imposizioni dall’esterno. Non sono stupito che la Sir abbia vinto tutto con lui. È un vincente e farà sempre di tutto per vincere. Parlammo a lungo dopo il suo arrivo e gli dissi che non stavo bene. Mi aiutò parlandomi di alcuni suoi momenti delicati vissuti in carriera, del supporto che i suoi maestri del tempo gli diedero. Arrivammo alla partita contro Trento e vincemmo 3-0. L’entusiasmo continuò fino ad una partita che ricordo molto bene”.
    Andata di Champions League. Avevate di fronte il Belgorod.
    “Entrai in campo per il riscaldamento molto carico ma andammo subito sotto 10-0 con due miei errori in ricezione. Fui sopraffatto da un attacco di ansia, e quando vidi Andrea Bari pronto per il cambio, ne fui completamente sollevato. È stato il primo vero momento in cui ho sentito franare la terra sotto i piedi. Ero contemporaneamente all’apice della carriera e vittima del peggiore momento psicologico della stessa. La partita successiva contro Modena, chiesi di far giocare Bari perché non me la sentivo di entrare in campo. Bernardi mi diede un periodo di riposo e anche per la gara di ritorno contro Belgorod rimasi assieme ad Ivan Zaytsev ad allenarmi a Perugia. Quella stagione fu l’inizio di tutto. Se potessi riaffrontare la gara di Modena con la consapevolezza del mio presente, mi creda, affronterei tutto in maniera diversa”.
    La stagione successiva arrivò la chiamata di Modena.
    “La definirei una montagna russa. Nel senso che fu un anno difficile per tutti. Sappiamo tutti come è andata a finire e quanti momenti no visse la squadra. Non fu un anno particolarmente complicato per me, quanto per il team. La durezza di Stoytchev e la fermezza del personaggio non aiutavano certo la mia fragilità del momento, ma non ero arrivato a Modena per giocare da titolare e quindi da quel punto di vista non sentivo la responsabilità piena in alcuni momenti. Che non mi abbandonarono di certo. Il mio angelo di quei momenti ha un nome: Bruno. Un ragazzo eccezionale che mi aiutò sempre, con la sua delicatezza, con il suo modo di essere coinvolgente, presente. Col fatto che durante la partita era coinvolgente con tutti.
    Eravamo un gruppo partecipe alla gara, titolari e non. Era capace di sfruttare un break e chiedere magari a me o Bossi un consiglio da utilizzare in partita. Lui, il più grande di tutti. Ecco, il valore di Bruno lo riconosci da quei momenti. E quel suo modo di fare era come il segnale che nonostante tutto, nonostante le scelte di un tecnico, la fiducia dei compagni ti accompagna sempre e ti è di grande supporto. Quell’aria respirata a Modena me la porterò dentro per sempre e il ricordo di Catia Pedrini e della gente è sempre vivo. Modena è sempre tanto per un giocatore. È una piazza bellissima e unica nel suo genere”.
    Ufficio Stampa Top Volley Latina
    Tubertini in quell’anno la venne a vedere e pensò a lei per Latina.
    “Mi seguì in qualche allenamento e mi propose per la stagione di due anni fa. Accettai. L’anno di Modena provai a buttarmelo alle spalle e mi lanciai in questa avventura. Fu un incubo, ma non da subito. Almeno non dal punto di vista psicologico. Ma l’ansia e i pensieri mi tenevano sempre più ancorato ai fantasmi del passato. Dovevo staccarmi. Per assurdo, stavo quasi meglio in palestra che a casa, posto nel quale venivo assalito dall’angoscia che qualcosa non stesse andando bene e che non ce l’avrei più fatta. Scoppiai, complice anche una ricaduta dell’infortunio che mi tenne fuori un mese l’anno prima a Modena. E qui ho avuto la fortuna di trovare una società che decise per il mio bene di lasciarmi allontanare e di sciogliere il contratto e un allenatore come Tubertini, che è stato eccezionale e che mi ha aiutato a trovare qualcuno con cui confrontarmi rispetto a tutto questo”.
    Questa persona si chiama Elena Di Chiara.
    “Fu lei a diagnosticare la mia sindrome da burn out. Con lei ho iniziato un percorso, perché da tutto questo non si viene fuori scacciando semplicemente i pensieri, bensì affidandosi a persone competenti, le quali ti accompagnano lungo una strada nella quale devi ritrovare la fiducia in te stesso, l’equilibrio perduto e devi anche rimettere assieme molti pezzi. Significa ripartire dagli errori, interpretarli, e ricostruire le proprie certezze”.
    Possiamo dire che si può guarire da tutto questo?
    “Sì. Io l’ho provato sulla mia pelle. C’è stato un momento in questa stagione nel quale ho capito che quelle pietre accumulate dentro il mio bagaglio le avevo ormai abbandonate lontano. Una partita contro Cantù. Vissi male tutta la settimana di preparazione alla gara, perché capitava nello stesso periodo in cui l’anno precedente decisi di lasciare Latina. Scesi in campo con la voglia di  giocare senza quei pensieri addosso e senza quella paura di fallire, di non essere all’altezza, che mi ha accompagnato per molti anni. Ci riuscii e mi buttai tutto alle spalle. Devo molto anche a Gulinelli, con il quale affrontai il discorso di ciò che avevo vissuto e che mi ha sempre supportato”
    Nel mondo dello sport si parla poco di tutto questo.
    “Un po’ per il pregiudizio e l’ignoranza sull’argomento. Sono stato anche io un problema e sono stato spesso l’oggetto dell’imbarazzo di alcuni. Ma ho conosciuto tanti atleti che sono stati vittime di tutto questo. Non sono solo i Micheal Jordan o le Serena Williams a combattere. E con i giusti strumenti le assicuro che può essere affrontato. Non come un problema, ma come un’opportunità di crescita”
    Le posso chiedere cosa si porta dietro dopo ciò che ha vissuto?
    “Ho imparato in primis a non dare importanza all’opinione poco costruttiva di qualche frustrato che usa i social o i blog per avere 5 minuti di notorietà. Ho imparato ad affrontare il giudizio. Fare il giocatore infatti ti rende soggetto a tutto questo ed è giustissimo doverlo affrontare; bisogna però imparare a distinguere un giudizio negativo ma rispettabile dalla cattiveria gratuita di qualcuno”.
    Lo sa che invece in molti hanno salutato positivamente la sua scelta di Pontedera?
    “Sono fortunato ad aver avuto una famiglia che è stata pronta a riaccogliermi a casa durante lo scorso anno. Una moglie, Veronica, che mi è stata vicino in tutto questo tempo. Mio fratello Lorenzo e mia sorella Alessandra, che mi sono stati accanto sempre. E degli amici, nomino fra tutti Marco Falaschi, ma sono stati davvero tanti, che hanno sempre creduto che da tutto questo potesse venirne fuori un Federico migliore, più forte. Ora sto bene e le posso dire che quello che le ho raccontato è dentro una stanza. Chiuso. Lontano da me”.
    Sta bene ora?
    “Molto. Se il prezzo per tornare in alto sarà quello di scendere di categoria e cambiare ruolo lo accetto e riparto proprio da qui. Con il desiderio di tornare dove ero ma con un occhio sempre molto vivo sul Federico inteso come persona e non solo come Federico il giocatore”. LEGGI TUTTO

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    Filippo Vedovotto punta all’en plein con Castellana: “Dobbiamo alzare l’asticella”

    Di Roberto Zucca
    Una conferma voluta e attesa da tutti i tifosi pugliesi. Filippo Vedovotto vestirà anche per la prossima stagione la maglia della New Mater Castellana, che si prepara alla nuova A2 con una formazione molto ambiziosa:
    “L’idea di concludere un percorso iniziato lo scorso anno è alla base della scelta di restare a Castellana. Il virus ha fermato non solo il campionato ma la nostra intera quotidianità, e quest’anno si spera di ripartire nel migliore dei modi. Mi è spiaciuto molto non terminare la stagione lo scorso anno, in primis perché eravamo in corsa per i play off e ce la potevamo giocare con le altre”.
    Ha dichiarato che la formazione del prossimo anno è altrettanto ambiziosa.
    “Oltre a quelli già annunciati, ci sono dei nomi fortissimi che rinforzeranno ancora di più l’organico. Quindi confermo, è una squadra ambiziosa come lo scorso anno e sono molto felice di farne parte. Lotteremo sicuramente per qualcosa di importante”.
    Obiettivo?
    “(ride, n.d.r.) Campionato e Coppa ovviamente! A parte tutto, confermare il buon andamento dello scorso anno e anche di più. Dobbiamo sempre alzare l’asticella e puntare a qualcosa di ambizioso, altrimenti gli stimoli dove si troverebbero?”.
    Un’altra formazione, Taranto, torna prepotentemente sulla scena in A2.
    “Ha fatto un mercato importante e sicuramente avrà i nostri stessi obiettivi. Sono tra quelle persone che pensa che anche gli stimoli esterni contino molto, e avere di fronte compagini così ben assortite è solamente uno stimolo per noi atleti. Credo che anche con Siena e Cuneo, che leggo fare delle belle squadre, si giocherà un bel campionato”.
    La Puglia ‘rischia’ quindi di essere la protagonista?
    “Beh, speriamo. È una regione che come poche altre ha un largo bacino di utenza della pallavolo. È una delle regioni calde della serie A, e avere qualcuno che la rappresenti in Superlega è un giusto riconoscimento a quanti ogni anno scelgono di investire in questo sport e nelle città del volley”.
    Quando si ricomincerà?
    “Tra qualche settimana. Per ora mi godo ancora qualche giorno di vacanza in Toscana, dalla mia compagna, e poi saremo pronti a ripartire”. LEGGI TUTTO

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    Trent’anni (e più) con Andrea Giani: “È iniziato tutto nel 1990”

    Di Roberto Zucca
    Sono passati trent’anni da quando il mondo della pallavolo si accorse di lui, che qualcuno definì il giocatore dalla tecnica d’artista e dalla prestanza fisica straripante. In quell’anno, nel 1990, la Maxicono Parma vinse la cinquina dei titoli, ovvero di tutte quelle competizioni a cui prese parte. E due anni dopo, Andrea Giani diventò il mito indiscusso di un’intera stagione dei nativi degli anni ’80, che nel suo personaggio riconobbero un piccolo sogno a misura di pallavolo:
    “Modena aveva vinto le finali degli ultimi tre anni contro Parma. Il 1990 fu l’anno in cui la Maxicono ebbe la meglio. Negli anni precedenti, ciò che Modena e Parma vincevano a livello italiano ed europeo non si ripercuoteva in altrettante vittorie della nazionale. Da quel 1990, otto giocatori di quei due club diventarono consapevoli di aver raggiunto una maturità tecnica e di gioco tale per cui anche in azzurro si poteva fare quel salto di qualità avvenuto col club, con il quale in Coppa si era avuta la meglio sulle grandi squadre russe. Julio conosceva bene molti di loro e ha continuato a crescerli professionalmente anche per farli vincere con la nazionale italiana. Ecco, penso sia nato tutto da lì”.
    Ventidue stagioni, di cui undici a Parma ed altrettante a Modena. Oggi possono esistere ancora amori così lunghi tra un atleta e un club?
    “Forse no. Calcisticamente è come pensare a Juventus e Milan, tu giochi per due club che fanno la storia e poi decidi di smettere. Non è facile racchiudere la propria carriera all’interno di due club che hanno quel tipo di know-how. Già quando alla Juve giochi dieci anni, ad esempio è tanto per un’intera carriera. Idem nel mondo della pallavolo”.
    “Lei, Giani, ora ha il ghiaccio sul ginocchio. I miei dirigenti invece se lo dovrebbero mettere in testa per non averla ingaggiata”. Era il 1992 e a pronunciare questa frase fu Silvio Berlusconi. Continui lei…
    “Arrivò negli spogliatoi a farci i complimenti dopo la semifinale tra Parma e Milano che decretò la loro uscita dal campionato. E a me disse quella frase che ricordo ancora. In realtà non è che alla Mediolanum non provarono a portarmi via, ma Parma si oppose sempre, perché mi vedeva come un punto fermo della rosa e una persona su cui il club aveva investito e voleva continuare ad investire”.
    Lei fu indubbiamente il simbolo della Maxicono. Si dice che Ghiretti pagò 50 milioni delle vecchie lire per avere il suo cartellino. Qualcuno disse che si era bevuto il cervello…
    “(ride, n.d.r.) Forse perché avevo solo quindici anni! Comunque al di là delle cifre, giocai a Sabaudia in A2 la stagione precedente al mio passaggio a Parma, e sia loro che Modena si interessarono al mio cartellino. Scelsi il progetto di Montali e Ghiretti perché durante il provino riuscirono a farmi appassionare a quella visione. La storia, poi, mi diede ragione sulla scelta fatta”.
    Sempre nel 1992 lei divenne il protagonista dello spot più famoso della pallavolo italiana.
    “È stato uno spot non mio, ma di un’intera squadra. Se ripensiamo allo sport di quell’epoca, è stata un’autentica innovazione. C’erano i mezzi economici per farlo, ma c’era anche un sentimento per la pallavolo che era parte attiva del grande sport italiano. Fu un periodo in cui tra noi e i calciatori, ad esempio, non c’era tanta differenza”.
    “Tra il tendine inserito nell’ulna e la rotula ha una cavità che assomiglia a una coppa di Champagne”. Sannucci su Repubblica le strappò un sorriso all’epoca?
    “(ride n.d.r.) Dico sempre che la coscienza che hai rispetto a ciò che stai facendo cambia a seconda dell’età. Ho vissuto l’alto livello quando ero molto giovane e anche in maniera piuttosto incosciente. Non badavo ai premi, alle vittorie, al successo e a ciò che avrebbero scritto su di me. Mi interessava solo fare qualcosa che mi appassionava. Lavoravo per imporre la mia forza tutti i giorni”.
    E come si fa in quei momenti lì a non perdere la testa?
    “C’era una cultura che veniva dalle nostre famiglie e dalle società, che sicuramente era predominante ed era fatta di valori solidi. In più il lavoro quotidiano attorno a noi era svolto da persone preparate. Tutto ciò che scaturiva da quel momento fu gestito bene da tutti, senza mai perdere la direzione”.
    La più grande soddisfazione che si è tolto con i guadagni della sua carriera?
    “Nel 1991 costituii una società immobiliare con la mia famiglia ed è stata quella la nostra cassaforte. Quel tipo di investimento fu, a 21 anni, la mia certezza sul futuro. Ho investito e diversificato, e ho cercato di non ho sprecare nulla. Non avendo mai giocato per le cifre, ma per la passione, volevo essere libero di continuare a farlo costruendomi certezze. Non sono mai stato uno da grandi desideri. Ero piuttosto una persona molto concreta”.
    Foto CEV
    Il suo gioco. Unico tallone d’Achille la battuta. È vero che il ds Aristo Isola a Parma minacciò bonariamente di multarla di 5 milioni di lire per ogni “servizietto”?
    “A me non lo ha mai detto! Ho vissuto sempre questo fondamentale per quello che serviva alla squadra. La mia filosofia era quella dell’attaccante. Per me l’attacco è una parte importante. Poi c’erano il muro e la difesa che mi davano proprio gioia e mi stimolavano tanto. La battuta e la ricezione un po’ meno, lo ammetto. Ma nel corso del tempo anche la battuta ebbe un suo percorso e una sua evoluzione. La spin la utilizzai nelle competizioni internazionali. Nel club usavo più la flot, non per una ragione dettata dagli allenatori. Il gioco è sempre stato una mia scelta personale”.
    Dicono che Velasco stravedesse per lei, ma che non riuscì ad entrare completamente nella sua testa. Chi la comprese realmente?
    “Julio e Bebeto sono sicuramente i due allenatori che hanno inciso in tutto. Devo dire che mi hanno compreso al 100%. Ciò che è stato difficile sono stati i cambi di ruolo. La difficoltà del cambio porta inizialmente ad avere delle performance altalenanti, ma questo non era imputabile alla mancata comprensione del tecnico, quanto al cambio di ruolo stesso”.
    Il rapporto con il suo alter ego Andrea Zorzi?
    “Andrea è stato il mio fratello maggiore. Arrivai a Parma a 15 anni. Lui ne aveva 20. Fu una base che mi permise di avere una certa stabilità emotiva, anche perché era la prima volta che mi allontanavo da casa. Durante la finale dell’88 contro Modena, eravamo al bar e lui, prendendo il giornale in mano, mi disse: ‘Oh Giangio sei stato convocato in nazionale!’. E io: ‘Ah sì?’. Ecco, lo racconto spesso perché questo fa capire la misura di ciò che abbiamo condiviso, e per me è stato davvero importante”.
    Si dice che papà Dario, storico atleta olimpionico dell’Arma dei Carabinieri, abbia forgiato il suo carattere.
    “Mio papà ha un grandissimo pregio, ovvero non aver mai limitato le mie passioni sportive. Ho cominciato col canottaggio e in quel momento non mi disse mai nulla e non mi allenò mai, ma mi lasciò scegliere. Non avermi mai limitato è stata la mia grande fortuna. Anche caratterialmente”.
    La saggezza di Giani è la saggezza di papà Dario?
    “La ringrazio per il complimento. La base sì, poi il percorso sei tu a dovertelo creare. I tuoi genitori e il tuo contesto familiare ti trasferiscono la parte educativa. Il resto sono esperienze tue, nelle quali sviluppi il tuo modo di stare al mondo”.
    Ha usato questa saggezza per guarire dall’incubo di quell’asticella leggendaria nella finale di Atlanta 1996?
    “Non è un incubo intanto, perché non ti svegli urlando mentre sogni ancora quel punto. La razionalità ti fa capire i passaggi di quella palla che portò il titolo più importante al collo dell’Olanda. Il rammarico non è tanto quella palla, in cui c’era l’1% delle possibilità di andare dall’altra parte, quanto quella del nostro match point. Fu quello il vero rammarico, perché lo abbiamo gestito male e perché poteva essere il momento decisivo per noi. Ma fu comunque un momento e un traguardo importante della mia carriera”. LEGGI TUTTO

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    I segreti del Bazooka Cantagalli: “Non amavo il successo, ho giocato per passione”

    Di ““. La miglior definizione di Luca Cantagalli l’ha data un suo compagno di nazionale di sempre, ovvero quell’Andrea Zorzi che con il “Bazooka” più famoso della pallavolo italiana fece parte della Generazione di Fenomeni che ha fatto la storia del volley. È proprio questo mix di ingredienti che ha reso così intramontabile il mito […] LEGGI TUTTO