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Storia e leggenda del Genio del Basket

Storia e leggenda del Genio del Basket

Non fosse stato alto quasi due metri sarebbe passato inosservato. E infatti quando sul lungomare di Reggio Calabria videro quello spilungone, nessuno ci badò più di tanto. E non ci badarono neppure quando al Palasport Calafiore venne presentato ai tifosi. Perché quella era la Viola che puntava alla promozione nella Al di basket dopo i fasti dei primi anni Novanta e la retrocessione della stagione precedente. E certo non era Emanuel Ginóbili il pezzo forte della restaurazione. Era argentino, mica americano. Giocava in Sudamerica, mica aveva fatto canestri in Europa. E poi c’era da celebrare il ritorno di Brian Oliver, il talento tedesco di Christian Welp, la forza di Brent Scott. Soprattutto quest’ultimo che tutti avevano visto a Forlì qualche anno prima, che aveva segnato in Nba e poi si era trasformato nella stella bascamericana della Saski Baskonia di Vitoria, la formazione che aveva dominato il campionato spagnolo e perso inspiegabilmente la finale contro la Manresa.

Del talento di Ginóbili i tifosi se ne accorsero quando iniziò a scendere sul parquet. Panchinaro da punti pesanti all’inizio, poi sesto uomo, infine guardia titolare. E se ne accorsero ancor meglio la stagione successiva, con l’argentino che trascinava la squadra fino a un passo dalla semifinale scudetto, fallendo però la partita decisiva, quella dell’eliminazione contro la Virtus Bologna. In mezzo la scelta al Draft Nba da parte di San Antonio. Ma al secondo giro e alla penultima chiamata e su pressione dell’allora head scout della franchigia, R.C. Buford, che aveva più di un interesse in Argentina. La scelta stupì: “Me ne hanno parlato bene amici argentini”, disse Buford. “L’ho visto e ho deciso di fidarmi, tanto è al minimo salariale e avrà tempo di dimostrare se vale. In Europa”. Ossia: intanto l’ho preso, guadagna poco e mi sono sistemato con gli amici. Buford non era poi così sicuro dell’argentino e non si oppose quando la Virtus chiese il prestito biennale.

Così Ginóbili, annusata appena l’America, si trasferì a Bologna. E ci arrivò in sordina. Per tutti era un buon rincalzo, niente più. D’altra parte venne acquistato per far rifiatare il talento enorme dello “zar” Sasa Danilovic. E poi in città si parlava soprattutto dalla forza e dalla visione di gioco di Marko Jaric, che l’anno precedente aveva entusiasmato l’altra faccia di Bologna – la Fortitudo – con le sue giocate. E si fantasticava sui racconti delle gesta incredibili del due volte miglior giocatore del torneo sloveno, Matjaz Smodis. Il precampionato fu mediocre e quando lo “zar”, in preda alla delusione per l’eliminazione della sua Jugoslavia ai quarti del torneo olimpico, annunciò a sorpresa il ritiro tra i virtussini scese il gelo. “Quando Danilovic disse che avrebbe smesso poco ci mancò che mi sentissi male. Perché a Bologna lui era il re, qualcosa che andava oltre lo sport”, racconta al Foglio Manuel che da oltre trent’anni gestisce uno dei bar vicini al PalaMalaguti, il palazzetto dove gioca e giocava la Virtus. “All’epoca già conoscevo Ginóbili, era sempre venuto qui e accanto alla macchina del caffè era già appesa la foto con lui”. Due uomini davanti al bancone, la scritta, “A Manu da Manu. Ganaremos”. “Era un ragazzo umile e intelligente, uno che vedevi che era determinato a essere il migliore. Gli volevo bene, parlavamo spesso, ma all’epoca si era ritirato lo Zar e noi eravamo tutti in lutto”.

Sostituire uno dei giocatori europei più forti, una guardia capace di fare sette su sette da tre punti in maglia Miami Heat al Madison Square Garden contro i New York Knicks, è impossibile. Soprattutto per un argentino che era stato protagonista a Reggio Calabria, non certo l’elite del basket italiano. Soprattutto se questo argentino esordisce in Eurolega, ad Atene contro l’Aek, con un solo punto a referto, 0/4 da tre, 12 palle perse e il commento impietoso della dirigenza bianconera: “Se questo è Ginóbili, stiamo freschi”. Non era quello Ginóbili. Se ne accorsero tutti. La stagione 2000/2001 fu indimenticabile per la Virtus. I ragazzi di Ettore Messina giocarono un basket fantastico, furono un ciclone, distrussero qualsiasi cosa si trovarono di fronte. Coppa Italia, Scudetto, Eurolega: Grande Slam. Ginóbili in questa squadra è trascinatore, gioca come pochi, come mai si era visto fare: segna dalla linea dei seieventicinque, schiaccia, regala assist, recupera palloni, rilancia l’azione, diventa indispensabile. Soprattutto si prende lo scettro di miglior giocatore della serie Al, lo strappa a Carlton Myers, con una stoppata e un contropiede vincente, strappando di mano la palla che poteva dare gara-2 alla squadra del miglior giocatore italiano e segnando i due punti che chiusero la partita. Ma non bastava per l’Nba. Doveva ripetersi. Lo fece in Coppa Italia, ci riuscì nella regular season e in parte nei play-off. Ma fallì nel momento decisivo, in semifinale contro la Benetton Treviso. Due partite inguardabili su quattro e tanti saluti allo scudetto.

In Nba ci finì comunque. Ma quando scese dall’aereo a San Antonio non c’era nessuno ad aspettarlo. D’altra parte un argentino che viene dall’Europa non fa notizia, tanto più che era tornato Steve Kerr ed era arrivato il talento geniale e microscopico di Speedy Claxton, i due uomini fortemente voluti da coach Gregg Popovich per rendere gli Spurs una squadra capace di lottare per il titolo. Popovich era già allora considerato un santone e quando lo definì “troppo indisciplinato per essere davvero utile”, quasi tutti pensarono che l’avventura di Ginóbili nel più importante campionato al mondo di pallacanestro fosse finita prima di iniziare. Racconterà il coach dieci anni dopo: “Manu venne da me al termine di un allenamento e mi disse che avrebbe fatto di tutto per disciplinarsi, avrebbe fatto di tutto per essere il migliore. Gli dissi che prima doveva diventare utile e poi ne avremmo riparlato. Capii allora di avere davanti qualcosa di speciale: un giocatore che aveva la testa giusta per diventare incredibile”. Ginóbili ci mise pochi mesi a diventare prezioso. Due anni per diventare incredibile. Conquistò l’anello alla prima stagione da semiprotagonista, divenne trascinatore l’anno dopo.

Prese le misure ad Atene, quando la sua mano sinistra guidò l’Argentina verso la medaglia d’oro alle Olimpiadi del 2004. Lo fece imponendosi come “guida tattica e spirituale” – raccontò a Marca “Pepe” Sànchez, il playmaker della selezione argentina – di quella Generación Dorada, “che ha vinto tutto, ma poteva non vincere niente”, perché “se Manu non avesse tirato fuori dal cilindro il suo talentc nell’ultimo quarto contro la Nuova Zelanda nella fase a gironi noi saremmo usciti subito dalla competizione”. Invece Ginóbili evita la sconfitta, poi si inventa la semifinale della vita contro gli Stati Uniti: 29 punti 3 assist, una stoppata, ma decisiva Fu eletto miglior giocatore del torneo. “E pensare che quando Manu era un ragazzo non era eccezionale era solo nella media. Non ha nemmeno fatto parte della nostra squadra nazionale giovanile”, ha raccontate Luis Scola, suo compagno di quell’avventura olimpica, a The Players’ Tribune. “Già all’inizio di quel torneo Manu era diverso, aveva lasciato i timori della gioventù da parte”, raccontò un altro suo compagno, Lucas Victoriano, alla Nación. “Era già un giocatore fantastico. La cosa incredibile è che in quel torneo continuò a migliorare. Si convinse che poteva essere fenomenale e riuscì a esserlo. Da quei Giochi Olimpici Ginóbili capì di poter essere essenziale senza essere per forza il migliore: capiva il gioco prima di tutti e in questo modo riusciva a fare quello che voleva. E quello che voleva era vincere”.

E al ritorno in America fece vedere la sua nuova dimensione sui parquet più importanti del mondo, quelli dell’Nba. La San Antonio di Ginóbili, Tony Parker e Tim Duncan “si trasformò in una delle migliori scuole dove imparare a capire cosa voleva dire giocare a basket”, disse Wes Unseld, campione della pallacanestro americana degli anni Sessanta e Settanta. Vinsero il secondo titolo nel 2005, il terzo nel 2007. Poi si presero una pausa di sette anni prima di conquistare il quarto Anello nel 2014. Ginóbili non fu mai MVP delle finali, “ma questo non conta. Perché Manu era il giocatore che migliorava il rendimento degli altri, ha avuto la rara capacità di amplificare il talento altrui”. Quattro titoli Nba, una Eurolega, l’oro olimpico, l’unico a ripetere quello che tutti pensavano irripetibile, ossia la carriera di Bill Bradley, colui che venne definito da Don DeLillo come “un cervello sopraffino prestato al basket”. Bradley era cestista dal talento incredibile, ma soprattutto uno che concepiva il basket come amore e “per saper amare bisogna non esserne ossessionati”. E così il basket lo lasciò in America, l’Nba al suo posto e preferì trasferirsi a Oxford per studiare e, nel tempo perso, trascinare l’Olimpia Milano alla vittoria in Eurolega. Milano pur di avere uno dei giocatori più forti della sua generazione gli fece firmare un contratto per 12 partite al massimo salariale, noleggiò un aereo privato (erano gli anni Sessanta e questo era qualcosa al limite della follia) per farlo girare per mezza Europa. Bradley conquistò il titolo. Poi si laureò, giocò in Nba, vinse due volte l’Anello con New York, divenne per vent’anni senatore del New Jersey, scrisse una ventina di saggi su politica e sport. Tre anni fa disse: “Solo il giorno che Manu Ginóbili si ritirerà, l’Nba capirà di aver perso il giocatore più intelligente e più raffinato della sua storia recente. Perché sicuramente ci sono stati giocatori più forti, ma non ne ricordo di cestisti capaci di vedere il basket meglio di lui”.

Manu Ginóbili si è ritirato lunedì a 41 anni. Lo ha fatto con un solo tweet, ancora senza fanfare, quasi in sordina: “Oggi, in mezzo a mille emozioni diverse, annuncio il mio ritiro dalla pallacanestro. GRATITUDINE IMMENSA verso chiunque (famiglia, amici, compagni di squadra, allenatori, staff, tifosi) sia stato coinvolto nella mia vita negli ultimi 23 anni. E’ stato un viaggio favoloso. Di gran lunga migliore dei miei sogni più selvaggi”. Poi ha inviato una lettera alla Nación nella quale ha salutato tutti, con la quale ha chiuso la porta su venticinque anni di basket: “Inizia un periodo in cui posso passare più tempo con mia moglie e con i miei figli. Spendere tempo di qualità in Argentina con la mia famiglia e i miei amici. Mangiare polenta al tavolo con i miei genitori o carne asada con gli amici. E’ venuto il momento di passare la seconda parte della mia vita con molte meno responsabilità e chiedendo finalmente meno al mio corpo, che è l’unico che ho. Avere del tempo libero è ciò che tutti inseguono: oggi, a 41 anni, finalmente lo posso fare anch’io: grazie per essere al mio fianco in questo viaggio”.

Il Foglio

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