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Torna l’appuntamento con Lupus in Fabula, la rubrica nata dalla penna di Andrea Ceccarelli. Argomento dell’episodio: Diego Armando Maradona, recentemente scomparso.
Sembrerebbe incredibile pensare che lui sia ricordato con quel gesto discutibile e irregolare. Uno che ha segnato alcuni dei gol più straordinari della storia del calcio, ricordato per quello scaltro colpo di mano. Soprattutto se si pensa che nella stessa partita, sempre lui, segnò il più bel gol della storia del calcio, scartando più di metà squadra dell’Inghilterra fino a depositare la palla in rete. Eppure, in quel gesto e in quel soprannome risiedono tante verità.
Diego Armando Maradona, da Villa Fiorito, periferia di Buenos Aires, è stato un genio popolare e populista. Lo è stato per le sue straordinarie capacità di addomesticare quella sfera, su ogni campo, in ogni circostanza, con ogni parte del corpo, piedi, cosce, petto, spalle, testa e, si, anche con la mano. È stato un uomo che ha rappresentato nella sua stessa vita le sue enormi contraddizioni, pagandone in prima persona gli errori. Sarebbe sbagliato dire sempre e solo in prima persona, come si legge e si sente da alcuni in questi giorni. Certamente sua moglie, le sue figlie, le sue amanti, un certo universo femminile che lo ha amato, curato, cullato e accompagnato, probabilmente ha condiviso anche il peso, il dolore e anche le conseguenze dei suoi eccessi. Questo va detto e mai dimenticato. L’amore per la famiglia, totale, a volte morboso e spesso contradditorio, è parte di una vita piena di contraddizioni che hanno comunque riportato sempre quel ragazzino con quegli occhi scuri e sinceri, alle sue origini e tra la sua gente. Un talento innato e una volontà di ferro lo avevano portato a rompere tutti gli schemi. Capace di emergere dalla povertà al lusso, dalla polvere dei campi di periferia, all’olimpo e alle luci della ribalta mondiale, per poi ricadere nella polvere.
Diego, un uomo, a detta di tutti quelli che l’hanno conosciuto davvero, leale, generoso, buono, diretto. Non ha saputo gestire tanto sentimento, tanta empatia, tanta necessità di riscatto e tanta assuefazione ad essere sempre al centro dell’attenzione, sempre il numero uno, almeno su quel rettangolo di gioco. Si è fatto amare e odiare, senza che questo ne abbia mai cambiato la sua natura. Ha saputo onestamente ammettere i suoi errori, le sue dipendenze. Ha sentito la colpa della distanza che questo gli aveva provocato rispetto alle figlie, alle persone che veramente gli volevano bene, al mondo del calcio. Ha sposato cause populiste, estremiste, forse non condivisibili, ma comprensibili da chi dell’America Latina conosce la fame della povertà, l’ingiustizia dell’emarginazione, l’arroganza del potere, la sete di libertà e riscatto sociale. Ha rappresentato per due popoli simili, l’argentino e il napoletano, così umani, rumorosi, ironici, furbi, ma anche così feriti, romantici, nostalgici e sentimentali, il simbolo della rinascita. L’Argentina uscita da poco da una sanguinaria dittatura e dalla sconfitta contro il Regno Unito nella guerra delle Falkland (Malvinas) vinse il mondiale del 1986, battendo in semifinale l’Inghilterra con i famosi due gol di Maradona. Napoli, considerata allora la città italiana più povera, pericolosa e disorganizzata d’Italia, dimostrò, grazie alle vittorie nel campionato di calcio dell’87 e del ‘90 di poter giocare alla pari con le grandi squadre del nord, trascinata dal genio in maglia numero 10. Maradona era il calcio, il gioco con la palla, ma di questo rifiutava il sistema, a volte a ragione, contro i manipolatori e i politicanti, lui li definiva “i mafiosi” delle istituzioni sportive, a volte, macchiandosi di un eccesso di vittimismo e di mancanza di rispetto delle regole.
Le sue battaglie contro Bush, contro Blatter, contro Matarrese, lo hanno sempre reso diverso dagli altri campioni dello sport, spesso per convenienza propria o per necessità contrattuale, portati ad essere più silenti o, comunque, meno diretti e aggressivi. Lui non ha mai fatto calcoli di opportunità. Le sue battaglie col pugno alzato sono dentro quel colpo di mano così famoso. Il braccio alzato simbolo di ribellione contro il “nemico”, il portiere avversario in semifinale, ma in quegli anni, anche l’Inghilterra, paese fortemente antagonista dell’Argentina. La scaltrezza di quel gesto, rapido, quasi invisibile, risolutore, ricorda la maestria degli argentini e dei napoletani nel gestire le situazioni difficili. Il suo salto verso quel pallone quasi impossibile, l’ascesa e il successo. La sua maglia bianco celeste, come la bandiera dei suoi “popoli” e come il cielo.
Il 10, graficamente divenuto IO nella parola D10S, Dio, che è quello in cui tutti gli emarginati, i poveri, i sottomessi confidano per aver un nuovo domani, sulla terra o in quello che verrà. Diego Armando Maradona, non è stato solo un genio del calcio, è stato un capo popolo, un simbolo, un’icona, una divinità per molti. Anche lui come il Ché, come Pancho Villa, come Simon Bolivar, come Giuseppe Garibaldi, eroe rivoluzionario dei due mondi, con alcune macchie e tanti errori, rappresenterà ancora per tanto tempo un’idea, un sentimento, una speranza per tanti ragazzini che corrono dietro un pallone e per chi in quel pallone vede l’unica opportunità di emancipazione.
Diceva un musicista argentino: .