29 aprile 2018: è quasi ora di cena e l’Olimpia Milano, reduce dall’insuccesso nel big match a Brescia di sette giorni prima, ha appena perso 70-75 in casa contro una non irresistibile VL Pesaro. Un terzo quarto da 13 punti segnati, una pioggia di fischi al quarantesimo, i social network impazziti e i tifosi inviperiti: è successo davvero di tutto. Quella sconfitta è stata, a tutti gli effetti, la goccia che ha fatto traboccare un vaso contenente 20 sconfitte in Eurolega, una figuraccia in Coppa Italia contro Cantù e una mentalità collettiva dalla dubbia solidità (al di là dei problemi tecnici visti fino a quel momento, su cui non mi soffermerò in questo articolo). Già, perché il problema del tracollo contro i marchigiani è stato specialmente “di testa”, di approccio. Tutti, o quasi, hanno avuto la sensazione di guardare una team senz’anima, un accozzaglia di grandi talenti (non amalgamati) destinata a non andare lontano. “Come può questa squadra vincere lo scudetto?”, mi sono chiesto mentre tornavo a casa dal Mediolanum Forum. E quando mi sono posto tale domanda non ho pensato alla gara contro Pesaro (una serata storta ci sta), ma a tutto ciò a cui ho assistito precedentemente: alti e bassi continui di un organico messo in piedi con ben altri obiettivi.
15 giugno 2018: sono le 23 abbondanti e l’Olimpia Milano, dopo aver giocato (probabilmente) la sua miglior partita della stagione, sta festeggiando al centro del parquet della BLM Group Arena il suo scudetto n° 28. Quella contro Trento è stata una serie dura, fisica e difficile da interpretare, ma l’EA7 è stata capace di imporsi e fare la voce grossa anche quando sembrava a un passo dal crollo. Un trionfo meritato, convincente e che ha fatto felici tutto l’ambiente biancorosso. Anche Theodore e M’Baye, che hanno guardato i playoff con la polo di Armani indosso. E questo fatto è la dimostrazione che questi ragazzi hanno fatto un salto di qualità mentale, di spirito.
29 aprile-15 giugno, meno di due mesi che sono sembrati una stagione intera. In quell’arco di tempo l’Olimpia si è guardata allo specchio, ha cambiato atteggiamento nel momento più delicato della stagione e si è riconquistata la sua città e il suo pubblico. L’emblema di questa rapida metamorfosi è stato il rendimento di Andrew Goudelock. Tra prestazioni disastrose al tiro, un linguaggio del corpo negativo e tweet evitabili, il Mini Mamba era sull’orlo di una crisi di nervi. Ora, invece, è considerato l’eroe della finale grazie a “The Block” in gara-5, i 26+25 nelle prime due partite e il premio di MVP della serie contro l’Aquila. Lo statunitense ha cambiato radicalmente il suo atteggiamento e, di conseguenza, nei playoffs si è rivelato un fattore anche in difesa. Il suo pianto in diretta su Eurosport vale più di mille parole: questo ragazzo ci tiene per davvero e lasciarlo partire sarebbe un errore. Perché Milano, ora più che mai, ha bisogno di atleti attaccati ai colori e che credano nel progetto nato l’estate scorsa.
L’Olimpia deve ripartire da quel Goudelock e dall’approccio generale dell’ultimo mese. In postseason l’EA7 ha messo da parte la sua evidente natura umorale ed è andata avanti come un carro armato. Questa squadra non stava vivendo un momento facile, però da gara-1 contro Cantù ha immediatamente lanciato un chiaro segnale: la musica è cambiata. La chiave del successo è stata senza dubbio la solidità, in tutte le sue sfumature. Si è vista un’Olimpia in grado di imporre il proprio ritmo dal primo al quarantesimo minuto, di costruirsi un vantaggio con pazienza e di reagire alle rimonte avversarie. In gara-3 e gara-4 contro Trento ha forse fatto un passo indietro, ma ha tirato fuori gli attributi quando l’inerzia era dall’altra parte e ha fatto valere la sua netta superiorità tecnica e fisica. Un calzante esempio preso da gara-6: l’Aquila, a causa dell’energia difensiva dell’EA7, non è mai riuscita a fare “la sua partita” e si è mostrata estremamente vulnerabile.
Tutto ciò grazie a qualcosa che, appena sono iniziati i playoff, è scattato nella testa dei giocatori. Quello spirito deve essere la colonna portante di un’Olimpia che è stata costruita non di certo per conquistare un solo scudetto, ma per competere (che non significa vincere o arrivare alla Final Four) anche in Europa. C’è la necessità di aprire un ciclo, e il modo migliore per farlo è confermare gran parte del roster campione d’Italia. Con qualche necessaria integrazione: una su tutte il probabile arrivo del serbo Nedovic, che potrebbe portare un po’ di freschezza e dinamismo in più a un attacco spesso statico e privo di idee.