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Tennis, Parigi: Djokovic batte Federer in tre set e trova Khachanov in finale

PARIGI – Uno spettacolo in cui il tennis più si allunga e si inacidisce, come i muscoli, e più assume contorni spirituali. Essere Novak Djokovic. Essere Roger Federer. Come a Dubai nel 2014. Come in quegli Us Open in cui ad ogni finale veniva raccontata un’avventura per grandi e piccini, al pari di un romanzo di Dickens. Hanno vinto entrambi. Soltanto all’ultimo tie-break Federer si appanna di quell’opacità che hanno certi cruscotti quando vengono toccati dal calore del fiato di chi guida la macchina a bocca aperta fra entusiasmo e stupore mentre riscopre il piccolo mondo antico della propria infanzia o esplora qualcosa di mai visto. Caldo e freddo mescolati, dentro e fuori fusi in una sola emozione, vincenti ed errori, tutto costantemente in bilico. Opaco sì, ma sempre presente. E non è bastato. Il Federer di quella manciata di secondi si è dovuto inchinare perché proprio in quel momento il compagno di pennellate, dall’altra parte della rete, aveva ripreso a recitare il suo canto dolce e spietato, cercando le righe.

Una semifinale, questa di Parigi, che non aveva un trofeo in palio, in fondo c’era soltanto da giocarsi l’ingresso in finale a un Atp 1000, che volete che fosse per gente come loro. Eppure nessuno ci ha fatto caso, a parte l’altro finalista, Karen Khachanov che a 22 anni si era già regalato per la prima volta in carriera l’ultimo atto dell’ultimo 1000 dell’anno prendendo a pallate (cosa rara) Dominic Thiem e chiudendo con un assordante 6-4 6-1.

Tre ore e due minuti per la partita dell’anno, per ora. E non è poco visto che siamo a novembre. La meraviglia scaturisce dall’intensità disumana che questi due disumani hanno infuso nei loro 251 punti scontrandosi nelle loro diverse perfezioni e nei loro momenti di stanca, pochissimi: gli ultimi punti per Federer e una certa debolezza, soprattutto nel primo set, sul suo lato destro, quando c’era da andare a recuperare gli angoli malefici invidivuati da Djokovic come se fosse un gioco da ragazzi aprire il campo, come se nel campo avversario vi fosse una chiusura lampo; mentre per il serbo, oltre a un’inedita fallibilità sulle palle break (12 perdute), uno strano atteggiamento all’inizio del secondo set, quando tutti, lui compreso, avrebbero scommesso su un calo psico-fisico dell’altro mostro, che aveva appena perso il primo parziale 7-6 e che in teoria avrebbe dovuto sentire la botta, mentre niente, Federer è rimasto lì a puntellare il suo gioco, anzi è cresciuto col passare degli scambi sino a costruire un alveare di dubbi persino nell’inattaccabile Nole, mentalmente solido come nel 2011 (o quasi).

Avengers di se stessi, X-Men, ogm dell’anima. Se il tennis è questo, ben venga che ci si allunghi stremando i cuori e i polmoni. Sono stati quello sono sempre stati: due metà della mela che vanno a congiungersi nel tentativo di creare un universo parallelo e irripetibile di gesti che è sempre meglio non insegnare a nessuno perché è impossibile farlo. Non c’è stata soluzione di continuità: al 7-6 per Djokovic, snocciolatosi nell’arco di più di un’ora, Federer rispondeva strappando il servizio al collega per issarsi sul 7-5 (il primo e unico break del match). Terzo set della stessa magica pasta. Sino al finale in cui Federer, distratto di chissà quale lontano furore e da un minimo di tremore post-adolescenziale (a 37 anni glielo si può concedere…), regala due turni di servizio a Nole, di cui uno mediante doppio fallo, retrocedendo sull’1-5.

A quel punto sono arrivati tre match point per il prossimo n.1 del mondo (da lunedì). Dietro lo score, 7-6, 5-7, 7-6, resta la gigantografia di un evento non comune che soltanto in rare, rarissime occasioni lo sport assicura. Con due eroi come questi, eroi della qualità pura, a giocare e un po’ a tenersi per mano. Rimane attaccato alla retina il dondolìo di un’altalena di bellezze. Come a New York nel 2015, il pubblico era schierato, ma con meno enfasi, con più “europea” correttezza, dalla parte di Roger.

Come sempre Nole ha dovuto pertanto spaccare una roccia emotiva, aprendosi lo spazio che gli occorreva per vincere con l’unico ausilio delle mani nude e di una stabilità psicologica totalmente ritrovata e assolutamente impensabile sino a marzo scorso.

Sembrava più falloso, alla fine, specie col diritto. Invece Nole ha tenuto anche di fronte alla crescente fragilità di alcuni movimenti laterali (quasi un’eresia) e ai vaghi sospetti che la sua condizione non fosse più, col passare dei minuti, così a tenuta stagna. Domani Djokovic sfiderà Khachanov e lunedì, come detto, tornerà in vetta alla classifica. Lo farà dopo aver percorso sentieri infernali, aver visto streghe,
spettri, demoni, forconi e code, dopo essere passato per una sala operatoria ed aver visto medici con la mascherina che lo rassicuravano sul suo futuro e sul suo gomito e lui, appoggiato su quel tavolo e abbandonato a una parziale anestesia, continuava a dire di non credere a nessuna di quella parole, come fossero soltanto ingannevoli sirene, a dire che lui il meglio l’aveva dato. Ma era un trucco. Federer può consolarsi, anche se al termine della contesa era furioso: ha giocato come un ragazzino contro l’uomo di gomma, il cannibale dal sorriso tentatore. E il risultato è stato che noi, contemporanei di queste rime baciate, abbiamo visto qualcosa di anormale…
 


Fonte: http://www.repubblica.it/rss/sport/rss2.0.xml


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