Se dodici anni comprendono almeno due generazioni tennistiche, in termini digitali quanto archiviato nello stesso periodo, ossia dal 2006 a ora, è un multiplo milionario dei dati generati dalle precedenti vicende del genere umano, dai graffiti a Twitter (lanciato nella primavera 2006, appunto). Non è agevole reperire in questa mole di informazioni un fedele resoconto di come andò, il 18 aprile di quell’anno, il primo match tra Roger Federer, all’epoca da due anni numero 1 al mondo, e il quasi diciannovenne Novak Djokovic. Era il turno d’esordio del Masters Series di Monte Carlo e sappiamo che lo svizzero prese un po’ sottogamba l’impegno con il ragazzo serbo approdato al tabellone principale dalle qualificazioni: “Reduce delle vittoria nei primi due grandi tornei ATP della stagione, Indian Wells e Miami, Roger è apparso pigro, con l’inevitabile conseguenza di sommare troppi errori”, scrisse l’inviato dell’agenzia AP. “Ha preso il controllo del primo set ma ha faticato nel secondo, cedendo il servizio due volte prima di perdere il set con un dritto sparato largo. Nel terzo set Djokovic ha annullato tre match point prima di regalare a Federer la vittoria per 6-3 2-6 6-3 in un’ora e 49 minuti”. Fu senza fantasia il commento post-partita del fenomeno di Basilea: “Non è stato facile, non ho giocato alla grande ma ho bisogno di tempo per adattarmi a questa superficie”, che poi era la mai amata terra rossa.
Quarantacinque match dopo, la finale a Cincinnati ha riacceso una rivalità mai sopita né mitigata da un rispetto reciproco che di sicuro non si trasformerà in amicizia. Con due break piazzati al momento giusto nel primo e nel secondo set, Nole ha compiuto un’impresa che meriterà una doppia citazione wikipediana: è il primo giocatore a battere Federer in finale al Western & Southern Open e il solo campione in attività a potersi fregiare del titolo di “Golden Masters” avendo alzato in carriera almeno una volta i trofei dei nove principali tornei ATP, che sono Indian Wells, Miami, Monte Carlo, Madrid, Roma, Toronto o Montreal, Cincinnati, Shangai e Parigi Bercy. Nonostante le cinque finali disputate in precedenza, Djokovic non aveva infatti mai vinto in Ohio. Con il successo di oggi, inoltre, stacca forse definitivamente Federer nei confronti diretti (24 a 22).
Djokovic è tornato l’insaziabile collezionista di vittorie che aveva dominato il circuito tra il 2011 e il 2012 e tra il 2014 e il 2016. Dopo un inizio di stagione che sembrò a molti il seguito logico e forse non evitabile della profonda crisi cominciata un anno e mezzo prima, il serbo ha avuto la saggezza di continuare a puntare sul suo vecchio team, guidato da Marian Vajda, che poco alla volta ha saputo piazzare al posto giusto ogni tassello di un confuso puzzle psicofisico. Oggi a segnare le sorti del match (6-4 6-4 in un’ora e 25 minuti) è stata la sua assoluta superiorità nei turni di risposta al servizio, a dimostrazione che a funzionare sono le armi di sempre. Dopo il trionfo a Wimbledon, l’ex numero 1 aveva bisogno di una conferma così, che lo candida a favorito per Flushing Meadows.
Federer non ha tuttavia motivi per demoralizzarsi. Il suo percorso a Cincinnati (con successi su Stan Wawrinka nei quarti e David Goffin in semifinale) è confortante in prospettiva degli Us Open, in programma dal 27 agosto. Quanto visto a Toronto e Cincinnati fa prevedere uno Slam a fronti contrapposti, con protagonisti di enorme esperienza come lui, Djokovic e Rafael Nadal, il campione uscente, uniti nella determinazione a non cedere il passo ai giovani senza più timori reverenziali, da Alexander Zverev a Stefanos Tsitsipas, da Denis Shapovalov a Frances Tiafoe. Potrebbe essere il primo major con al centro dell’attenzione generale il cambio generazionale. Anche se i tempi non appaiono ancora maturi per un passaggio del testimone.
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