Challengers di Luca Guadagnino, il tennis come metafora della vita

È nelle sale l’ultimo film del regista italiano e internazionale che mette in scena una storia a tre lunga 13 anni in cui le partite giocate sono due. Sul campo da tennis e in amore. Il premio è lo stesso, la ragazza amata da due amici che diventano rivali.

Ho visto lei che bacia lui che bacia lui che bacia lei. No, non è il testo (sbagliato) di Mon Amour di Annalisa. Potrebbe essere la colonna sonora di Challengers, nuovo film di Luca Guadagnino, che invece sceglie Pensiero Stupendo di Patty Pravo. Sceneggiatura di Justin Kuritzkes. Nonostante l’ambientazione e il titolo, preso dal circuito di tornei internazionali di seconda categoria, non è un film sul tennis. Come hanno precisato regista e cast. Il tennis è usato come metafora della vita, sia in amore che nel lavoro. In una partita a tre. Anomalia per uno sport dove i numeri in questo caso sono pari, 2 o 4. Lei è la bella e sfortunata Tashi Duncan, interpretata dall’idolo dei teen-ager Zendaya. L’astro nascente del tennis americano che precipita con i suoi sogni dopo un grave infortunio. L’attrice ha lavorato tre mesi con Brad Gilbert, coach tra gli altri anche di Andre Agassi. Piccola parentesi, la racchetta da tennis sembra il destino delle Mary Jane di Spiderman. Kirsten Dunst in Wimbledon, Emma Stone in La Battaglia dei sessi e infine Zendaya in Challengers. Dei tre protagonisti del film di Guadagnino è lei quella dal futuro più luminoso. Quella che sarebbe diventata una campionessa se il ginocchio non avesse fatto crack (e si è sentito bene). La femme fatale, fin troppo forse, che dice di non voler fare la rovina famiglie ma contribuisce a rovinare un’amicizia. Tra Patrick ed Art interpretati da Josh O’ Connor (il giovane Principe Carlo in The Crown) e Mike Faist (West Side Story di Spielberg). Due ragazzi che non brillano per intelligenza e maturità. A volte irritanti ma non davvero antipatici. Uno più spavaldo e focoso. L’altro, sembra, il classico bravo ragazzo. Più freddo. 

© 2023 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc.

Un film che si divide in due parti contrastanti. La prima più tenera e leggera, siamo nella fase delle scoperte e dei sogni dell’adolescenza. La seconda è più cupa, più arrabbiata, come l’umore della protagonista. L’unione e la complicità dei due ragazzi va in frantumi quando si contendono la stessa ragazza. Che all’inizio della sfida si mette in palio come premio al vincitore. Inevitabile la rottura dell’amicizia, che però è sembrata un po’ forzata. Ma senza la quale non ci sarebbe stata ovviamente l’evoluzione voluta. In un continuo flashback and forward un racconto di 13 anni di vita, di relazioni, di vittorie e sconfitte. Il palcoscenico è il campo da tennis. Anche se diciamolo senza temere di offendere Luca Guadagnino, ci sono diverse imperfezioni sia tecniche che di arbitraggio. E la traduzione qua e là è da rivedere. Ma la scelta delle riprese del gioco, in cui lo spettatore si può immedesimare addirittura nella palla gialla impazzita, è originale e va premiata. Notevole anche la colonna sonora, firmata da Trent Reznor e Atticus Ross. 

Luca Guadagnino sul set di Challengers – @Niko Tavernise / Metro Goldwyn Mayer Pictures

Ambientazione Stati Uniti. Un colpo al cuore, per chi è stato almeno una volta allo US Open, i corridoi dell’Arthur Ashe con le foto dei campioni del passato appese ai muri ma anche i tavolini all’aperto della food area. Dove gli appassionati si rifugiano per mangiare e bere tra una partita e l’altra. Anche se Challengers inizia e finisce al Challenger di New Rochelle, Contea di Westchester, nello stato di New York. Dove va in scena la partita/sfida tra gli, ormai, ex amici. Tra il campione che cerca di ritrovare la fiducia prima di puntare al titolo dello US Open (Art), e l’altro che cerca punti per entrare nel torneo delle qualificazioni (Patrick). Un incrocio non casuale ma architettato da chi se non Tashi, per mettere alla prova il marito che da junior non è mai riuscito a battere l’allora amico.

Challengers è un film fisico. In tutti i sensi. Si percepisce la fatica sul campo dove si suda come neanche Rafa Nadal. Gocce di sudore che fanno parte della più ampia e dettagliata rappresentazione del corpo maschile. Film fisico anche per un contatto continuo, nella vita di tutti i giorni, in uno sport non di contatto. A reggere i fili del (doppio) gioco è lei, Tashi. Che dopo aver abbandonato il sogno di diventare una tennista professionista diventa coach, e poi moglie, di Art e lo trasforma in un campione ma in realtà la sua influenza su di lui va ben oltre la tecnica e la tattica. Sue le frasi più semplici e forti del film. Da “Oltre al tennis c’è di più” (quando spiega la sua decisione di andare alla Stanford University, a “Sono brava solo a colpire la palla con la racchetta”. Ma soprattutto “Giocare a tennis è come avere una relazione”. Altre invece sono meno riuscite come “Maschietti bianchi” in un momento del film in cui pensi che forse si poteva accorciare un po’. Nonostante il personaggio di Zendaya sembra dominare sui due pretendenti, un bacio in cui è spettatrice è l’immagine più significativa, la verità però è che suo malgrado è destinata a fare da spettatrice di quello che succede dove sognava di essere protagonista. Sul campo da tennis. Sicuramente è protagonista nella sfida amorosa. Dall’inizio della storia a tre ci si chiede lei chi sceglierà dei due? Una domanda che va avanti fino alla fine. Nel mezzo abbiamo capito che ha conosciuto bene entrambi. Non è una storia d’amore di quelle struggenti che fanno sognare e battere il cuore. Non è nemmeno una storia di amicizia di quelle forti e confortanti, anche se a tratti è il sentimento più vero e positivo del film. Abbiamo detto all’inizio che non è un film sul tennis. Ma il tennis viene scelto per dare una casa alla storia. Inevitabile quindi per gli addetti ai lavori sentire il rumore stridente di qualche ingranaggio nella sua rappresentazione. Una storia infinta a tre in un mondo dove si dice che i flirt tra tennisti e tenniste sbocciano e appassiscono come fiori. Un cerchio chiuso. Forse troppo? Chissà se Tashi non si fosse infortunata, avrebbe probabilmente lasciato i due amanti a faticare nei challenger e si sarebbe fidanzata con un bel campione. Ma non è andata così. Cos’è quindi Challengers? Un continuo gioco tra complicità e conflitto, intesa e rivalità, ambizione e fallimento. Una partita da giocare fino alla fine. Ognuno può interpretarlo come vuole. Come il finale. Perché il cinema è bello anche per questo. E forse la domanda giusta alla fine potrebbe essere perché si deve scegliere?

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