Sto-ri-co. Difficile non abusare del termine, dopo tre settimane di toboga emozionale, per il Tour numero 111 dei record. Il primo partito dall’Italia e con addirittura tre tappe (e un po’) da noi, fra Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte. Il terzo di Tadej Pogacar, dopo due secondi posti (dietro Jonas Vingegaard), che in giallo ha dominato come e più di quanto fatto il mese prima in rosa. Sei tappe al Giro e altrettante al Tour (le ultime tre consecutive, non accadeva dal Bartali-bis, nel ’48), superate le 3+8 di Eddy Merckx ’70. Prima doppietta 26 anni dopo l’ultima, quella di Marco Pantani ’98; la settima con i grandissimi Fausto Coppi ’49 e ‘52, Bernard Hinault ’82 e ’85 e il back-to-back di Miguel Indurain ’92 e ’93, Jacques Anquetil ‘64, le tre di Merckx ’70, ’72 e ’74, Stephen Roche ’87, che come il Cannibale nel ’74 si mise in testa la Triplice Corona: Giro-Tour-Mondiale nella stessa stagione. Guarda caso, il prossimo obiettivo già messo mentalmente a fuoco dal nuovo Re Sole sin nelle interviste a caldo: il durissimo mondiale di Zurigo del 29 settembre. Il 25enne sloveno ha stravinto pure la crono di Nizza, unico a chiudere i 33,7 km sotto i 40 minuti (39’ 28”) e sopra i 43 km orari, anzi quasi 44 (43,929). Dietro e con lui stesso podio all’arrivo e nella generale: secondo a 1’04” Vingegaard, vincitore delle ultime due edizioni, staccato di 6’17 in classifica; terzo a 1’14” il campione del mondo di specialità Remco Evenepoel, al debutto e prima maglia bianca belga di miglior giovane, a 9’18”.
È stato – anche – il Tour dei primati (le 35 vittorie di Mark Cavendish, anche qui superato Merckx); delle prime volte e degli omaggi alla carriera: l’unica maglia gialla nell’ultima boucle di Romain Bardet, che si ritirerà al termine del Delfinato 2025; e quella di un ecuadoriano, Richard Carapaz, per lui anche quella a pois di re della montagna, la tappa di SuperDévoluy e il premio di più combattivo; la prima maglia verde africana dell’eritreo Biniam Girmay e le sue tre vittorie, tante quante il suo rivale e predecessore Jasper Philipsen, re della Sanremo, nel duello fra i velocisti più forti al mondo. E delle lacrime: di gioia per i fugaioli di giornata come Anthony Turgis, che corre (e ha vinto a Troyes) anche per i due meno fortunati fratelli; Victor Campenaerts, neopapà che la frazione di Barcellonnette l’aveva puntata sin da dicembre; e lo stesso Evenepoel, che dopo aver vinto la Vuelta ha dimostrato a scettici e “infedeli” di poter ambire, un giorno, al gradino più alto anche al Tour; di umanissima sopraffazione, invece, quelle di Vingegaard; sopravvissuto nella terribile caduta il 4 aprile al Giro dei Paesi Baschi, è andato oltre se stesso: una vittoria al fotofinish sul rivalissimo Tadej a Le Lioran e al terzo podio filato nella corsa più importante al mondo.
Doveva essere il primo Tour con i “Big Four” (Tadej, Jonas, Remco, Primož in ordine di pronostico) per la prima volta insieme. È mancato (il miglior) Roglic, lui pure come Evenepoel reduce dal drammatico crash ai Baschi, caduto e ritiratosi dopo 12 tappe, ma mai apparso al livello degli altri tre. Non è mancata invece la miglior squadra – per distacco: 31’51” sulla Visma, seconda classificata – la UAE Emirates, una corazzata persino più forte di quella che ha assiso “Pogi” sul trono del Giro. Un dato su tutti, i tre nella top six assoluta: João Almeida quarto a 19’03, Adam Yates sesto a 24’07. Gente che potrebbe fare il capitano ovunque. Ma non in quella in cui il leader è il Cannibale gentile del terzo millennio.
È stato – anche – il Tour con una giuria non all’altezza di cotanta grandeur: declassamenti in volata talvolta inspiegabili e distribuiti ad personam (per non dire altro); i non-casi dei multati Julien Bernard (fermatosi a baciare consorte e loro figlioletto) e Davide Ballerini (idem per lo sprint vincente del suo capitano “CaXXXV”, scritto in numeri romani, come da maglia celebrativa incorniciata donata a “Cannonball” sul podio finale di Nizza); il clamoroso, con tre testimoni e filmato galeotto compresi, bidon collé graziato del colombiano Santiago Buitrago, decimo a 29’03”. Con la crono finale, Giulio Ciccone – il miglior italiano, 11° ma a 30’42” (!), di una truppa troppo sparuta per far finta di niente – sarebbe comunque uscito dalla top ten. Ma il senso di ingiustizia permane. E pervade. Ma l’ultimo Tour di un’intera generazione – Bardet, Cavendish, Geraint Thomas – è stato, soprattutto, l’apoteosi di un fuoriclasse epocale, che a meravigliarci, quasi giocando, ha appena cominciato.
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