La tragica fine di Marco Pantani coincide con l’inizio di un iter giudiziario intensissimo ed ancora in corso. Sono tre le inchieste che riguardano la sua morte, l’ultima iniziata lo scorso anno ed ancora in corso. Alle quali si somma quella della Procura di Forlì per i fatti di Madonna di Campiglio del giugno 1999. Una salita impervia quella affrontata da mamma Tonina, che non si è mai arresa davanti all’archiviazione delle prime due inchieste riminesi, con la Procura romagnola sempre convinta che non si trattò di omicidio quella notte di San Valentino del 2004 nella stanza D5 del residence Le Rose, sito nel controviale del lungomare riminese, ma di morte causata da abuso di un mix di farmaci e cocaina. Quella che Pantani aveva acquistato dagli spacciatori Veneruso e Miradossa, che abitavano in un appartamento situato dall’altro lato della strada rispetto al residence, proprio prima del decesso. La prima indagine, quella successiva alla morte e al suo clamore mediatico, fu gestita dal pm riminese Paolo Gengarelli. Che a distanza di anni sottolinea come le indagini si basino esclusivamente su fatti concreti e prove evidenti, sempre mancanti anche nelle inchieste successive, confermando però anche la legittimità dei dubbi sulla morte del Pirata. Perché il ritrovamento del corpo e della stanza non possono non farne sorgere. Alcune tumefazioni sul volto e sulle braccia di Marco, il totale disordine trovato in stanza, col lavandino del bagno staccato dal muro, lo specchio del bagno appoggiato per terra, l’armadio del salotto piazzato davanti alla porta d’ingresso, chiusa dall’interno, cocaina per terra e inserita in un bolo di mollica ritrovato di fianco al cadavere. E ancora: le chiamate di Pantani in reception “denunciando” rumori e gente che gli stava dando fastidio, anche se quando poi gli inservienti dell’hotel si presentarono a bussare Marco li mandò via senza permettergli di entrare. I rumori sentiti dai vicini della D5, e coi quali Marco aveva in precedenza avuto un breve e pacifico colloquio. Le telecamere di sorveglianze non funzionanti davanti all’ingresso del retro dell’albergo, al quale si poteva accedere anche dal piano garage senza quindi dover passare davanti alla reception. I due giubbotti invernali che Pantani si portò a Rimini da Milano, da dove era partito nei giorni precedenti al decesso dopo l’allontanamento dall’appartamento della sua manager, Manuela Ronchi, dalla quale aveva pernottato per qualche giorno nei primi giorni del febbraio 2004, mai ritrovati all’interno del residence Le Rose. Dubbi e perplessità che hanno portato all’apertura di una seconda indagine, nel 2014. L’ipotesi era omicidio, l’accusa contro ignoti. Col titolare, Paolo Giovagnoli, che prima ammette la riapertura del caso e poi, a distanza di mesi, ne chiede una nuova archiviazione. Nonostante una perizia di parte del professor Avato smentisse la precedente, successiva al decesso, del professor Fortuni, e ulteriori tematiche, anche relative agli errori commessi dagli inquirenti durante la prima inchiesta, fossero venute a galla. Secondo Giovagnoli, che basava il suo giudizio anche sulla perizia svolta dal professor Tagliaro, perito terzo chiamato in causa proprio dagli inquirenti, non erano emersi elementi nuovi che facessero pensare ad un omicidio.
Nel frattempo, e in parallelo, a Forlì si indagava nuovamente anche sui fatti di Campiglio. Dopo la rapida archiviazione dell’inchiesta del ’99 a Trento, nel 2016 la pm Lucia Spirito apre un nuovo fascicolo sull’ipotesi di associazione per delinquere finalizzata alla frode e truffa sportiva. Alla base le dichiarazioni di Renato Vallanzasca dal carcere, informato da ambienti vicini alla Camorra che “il pelatino” (Pantani) non vincerà il Giro del 1999. Cosa sportivamente impossibile, visto che Pantani a due tappe dal termine aveva un vantaggio abissale nei confronti del secondo in classifica, ma poi realmente accaduta. L’ematocrito analizzato dai tre medici nell’albergo di Madonna di Campiglio che ospitava Pantani e la Mercatone Uno nella notte precedente alla penultima tappa di quel Giro, era superiore a 50 (51.9 per l’esattezza), quota ritenuta limite per la sicurezza della salute degli atleti. Limite superato che non gli permise di concludere quel Giro, oltre a gettarlo moralmente in quell’abisso dal quale non sarebbe poi più uscito. Secondo Vallanzasca quella provetta, neanche scelta da Pantani che invece ne aveva diritto, era stata “taroccata”. In pratica, visti poi i valori ematici, ci potrebbe essere stata una deplasmazione del sangue presente. Si toglie una parte volatile che si trova sopra il plasma prelevato, e come conseguenza la densità del sangue stesso cresce fino a sforare i limiti. Prove ne sarebbe stata la drastica diminuzione delle piastrine, crollate in quel test ad un valore da persona gravemente malata, non certo di chi ha dominato tre settimane di massacranti saliscendi per l’Italia, montagne comprese. E il fatto che un professionista come Marco non avesse sotto controllo i suoi livelli ematici da primissimo in classifica, con la certezza quindi di un controllo, e a due giorni dalla fine del Giro è onestamente non credibile. Dubbi enormi quindi, decisamente maggiori rispetto alle altre indagini. Ma anche in questo caso, nonostante il rinvio degli atti alla Procura antimafia di Napoli, è arrivata una nuova archiviazione per l’inchiesta, disposta dal gip Monica Galassi, fermata stavolta dalla prescrizione del reato ipotizzato.
E ancora, nel 2021, una terza inchiesta sulla morte di Marco. Sempre a Rimini, sempre su iniziativa di mamma Tonina: che mai si è arresa e mai lo farà. Nuove testimonianze, una ventina, nuovi approfondimenti che però anche in questo caso non sembrano portare ad un finale diverso. Molte le imprecisioni riscontrate nei racconti e nelle testimonianze, alcune poco credibili o addirittura inventati. Oltre ad una tempistica, a quasi vent’anni dal decesso, che non aiuta. In un iter giudiziario complesso e lungo vent’anni. Proprio come il ricordo, che al contrario non avrà mai archiviazione, del campione di Cesenatico.
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