È bianconera la squadra che guida, imbattuta, la classifica della serie A. Non è la Virtus Bologna, costretta a saltare la gara dell’ultimo turno contro Tortona per la terribile alluvione che ha colpito la città, ma l‘Aquila Trento di capitan Toto Forray. L’italo-argentino è l’anima saggia e carismatica del gruppo allenato da coach Paolo Galbiati.
Forray avete le vertigini lassù?
«Nessuna vertigine per carità. Viviamo il momento con la giusta euforia e la consapevolezza che siamo all’inizio della stagione. Montarci la testa sarebbe un errore madornale. In campionato abbiamo saputo mantenere la giusta continuità. Così non è stato in Europa».
Siamo di fronte al solito dilemma: Europa sì o Europa no?
«Avere una connotazione fuori dai confini è importante così come confrontarsi con altre realtà. Il rischio di perdere un po’ di energie per strada c’è. Il club ha costruito, per il doppio impegno, un roster di qualità. Dobbiamo cercare un acuto anche in EuroCup. E incrociare le dita perché la sfortuna, vedi infortuni, non ci complichi la vita».
I gradi di capitano sono una responsabilità, non crede?
«È un ruolo che vivo con grande tranquillità e che mi riempie di orgoglio. Devo dare l’esempio, non mi pesa certo, e dispensare all’occasione consigli. E giocare, la cosa che ancora oggi mi piace più di tutte. Capitano o no cerco di dare il massimo affinché Trento possa vincere una partita in più ogni giorno che passa».
Con coach Galbiati vi separano due anni. Che situazione è?
«L’età, scusatemi, è un numero. Paolo conosce il basket, sa allenare molto bene e la conoscenza e l’applicazione dei concetti non sono certo figli di un semplice dato anagrafico. Io sono perfettamente consapevole del mio ruolo nei suoi confronti e non mi pongo il problema. Ogni giorno il coach accumula nuova esperienza, come succede per noi in campo. E il rapporto gerarchico è chiaro: lui decide e noi eseguiamo».
A 18 lascia l’Argentina per l’Italia: si immaginava un giorno di essere protagonista in A?
«Ho fatto la vera gavetta, come credo sia giusto per un giocatore come tanti altri. Di Gallinari o Belinelli, gente con quel talento pazzesco che li rende quasi unici, ne nasce uno ogni tanto. Io mi divertivo a giocare a basket ma non lo immaginavo come il mio lavoro, come poi è diventato. Ho scalato una montagna partendo dal basso e guadagnando in palestra ciò che sono oggi. Però salito un gradino guardavo sempre più in alto. È il mio carattere. Trento mi ha aiutato a stabilizzarmi e rendere solide le mie certezze. Prendere responsabilità non mi ha mai spaventato. Quando parlo con i giocatori più giovani cerco di trasmettere loro questo mio vissuto sportivo».
Che obiettivi si pone Trento in questa stagione?
«Salvarci il prima possibile. È quello che ci chiede la società. Io aggiungo che dobbiamo vivere di partita in partita. Senza voltarci indietro, ora che siamo lassù, e neppure guardando troppo avanti. Poi se resteremo in alto con il tempo che passa sarà bello».
A proposito del tempo che passa. Cosa farà una volta appese le scarpe al chiodo?
«Visto che vicino a me, per questa intervista, c’è l’addetto stampa… prenderò il suo posto. A parte gli scherzi, vedo nel mio futuro un ruolo in questo club, che ora per me è casa, famiglia. Con che compito? Non lo so, ma immagino che la volontà di continuare questa lunga storia d’amore ci sia da entrambe le parti».
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