Leggerezza, esuberanza, leggenda e continuità: le semifinali agli US Open sono una miscela esplosiva pronta a detonare su un Arthur Ashe che – al netto della maratona, kamikaze, tra Sascha Zverev e Jannik Sinner – ancora non è riuscito a infiammarsi come spera. Sarà compito di Carlos Alcaraz e Daniil Medvedev e di Novak Djokovic e Ben Shelton cambiare lo status quo.
La sfida tra Alcaraz e Medvedev è la migliore possibile in una parte alta di tabellone più simile a un remake di “Final Destination”. Alla fine ne sono rimasti soltanto due – e che due: il numero 1 al mondo, anche se prossimo alla destituzione comunque vada lo Slam newyorkese, e campione uscente contro il numero 3 ATP e campione nel 2021, anno in cui negò il Calendar Grand Slam a un Djokovic inaspettatamente paralizzato dalla tensione. Lo spagnolo arriva in semifinale con soltanto un set perso, non tanto nel match contro Dan Evans, ma in una partita nella partita contro se stesso e contro un po’ di disattenzioni di troppo facilmente perdonabili a un ventenne.
Che il quarto di finale contro Zverev fosse meno aperto di quanto ipotizzato sulla carta era intuibile già alla vigilia, con il tedesco che è sceso in campo ancora troppo stanco dopo la maratona agli ottavi di finale contro Sinner. A stroncare le rimanenti velleità di epica, ci ha pensato Carlitos, che non ha mai allentato la pressione su un Sascha troppo “ballerino” nel momento in cui ha avuto la testa sott’acqua. Quattro palle break sfruttate su quattro sono i numeri di chi, tra un sorriso e una smorzata, ormai sa riconoscere il momento in cui accendere l’interruttore, uscire dalla modalità “playstation” e abbandonare la leggerezza giusto per il tempo di tirare due o tre fucilate di dritto. Poi, però, obbligatorio tornare a sorridere.
Sorriso che Medvedev non ha mai avuto durante il derby contro Rublev. Più che con il tennis, i due si sono dati battaglia nei cerchi di fuoco, in un Arthur Ashe avvolto da una cappa di afa soffocante: ne è venuto fuori un match non entusiasmante, in cui Andrey, che adesso è 0-9 nei quarti di finale negli Slam, rimpiangerà di essere stato avanti di un break in tutti e tre i set e di cui Daniil vorrà ricordare soltanto il risultato, ossia un 6-4, 6-3, 6-4 che non dà l’idea di quanto proibitive fossero le condizioni di gioco. «Un giorno qualcuno morirà in campo», ha tuonato il campione a New York nel 2021. Aria condizionata cercasi, per evitare che la sfida con Alcaraz venga rovinata prima ancora di scendere in campo. Anche perché i precedenti dicono 2-1 per lo spagnolo, ma Carlitos ha vinto – e nettamente – i due giocati nel 2023, di cui uno era proprio una semifinale Slam, a Wimbledon. Anche il bilancio sul cemento sorride al numero 1 al mondo, che ha vinto l’unica partita disputata su questa superficie, in finale a Indian Wells a marzo, con un netto 6-3, 6-2 in appena 70 minuti. Non un ricordo incoraggiante per Daniil che, se vuole tenere fede al proprio status di specialista sul cemento e raggiungere la terza finale agli US Open nelle ultime cinque edizioni, dovrà correre, correre, correre. E trattenere il respiro non per l’afa, ma per evitare di lasciarsi sopraffare dalla rabbia. E dalla sensazione che la Next Next Gen abbia già sorpassato la Next Gen, di cui lui è il rappresentante più titolato – nonché l’unico ad aver vinto un Major.
Se la semifinale tra Alcaraz e Medvedev sarà la sfida tra chi brucia di gioventù e chi non vuole ancora lasciarla andare, la partita tra Djokovic e Shelton è il più classico tra gli scontri generazionali. Classe 1987 l’eterno Nole, più giovane ora di come era quindici anni fa, classe 2002 il rampante Ben, che aveva già bussato al campanello con i quarti di finale agli Australian Open e che ora ha sfondato la porta con la semifinale agli US Open, il più precoce statunitense a raggiungerla dai tempi di Michael Chang nel 1992. Come è ovvio che sia, non esistono precedenti tra i due e questo è un bene più per Shelton che per Djokovic. L’esuberanza di Ben, unita a un servizio che sa essere costantemente sopra i 240 km/h, a una propensione quasi “vintage” per la discesa verso la rete e alle curve mancine che sono sempre di difficile lettura se sconosciute, potrebbero quantomeno provocare un po’ di difficoltà di ambientamento a Nole. Il serbo, però, ha dalla propria parte qualcosa di insindacabile: i numeri. 47 semifinali Slam, tradotte in 35 finali e 23 titoli, per inseguire la doppia cifra di “Championship Sunday” anche a New York: gli US Open non saranno terra di conquista per Djokovic, che non vince il torneo dal 2018 e che ha un sorprendente bilancio di 3-6 in finale a Flushing Meadows. Proprio per questo, però, qualcosa sembra destinato a cambiare. D’altronde, come ha detto Roger Federer: «Per il titolo mi prendo Novak, mi sembra una scommessa sicura». E se il pronostico viene da lui…
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