Isner si ritira dopo gli Us Open e 18 anni di carriera

14.411 ace, al centro, a uscire, in kick, qualcuno anche con la seconda di servizio, per 18 anni di carriera da chiudere ovviamente in casa: John Isner, il gigante statunitense che ha traghettato il tennis USA dall’epoca Roddick al futuro incarnato dai Fritz, dai Tiafoe, dai Korda e dagli Shelton, dirà basta agli US Open, a 38 anni, dopo 16 titoli ATP e quattro figli. D’altronde “Long John”, uscito fuori dalla top 100 dopo il Roland Garros e attualmente numero 158 nel ranking ATP, aveva già avuto bisogno di una wild card per entrare nel tabellone principale del Major newyorkese.

Con il ritiro di Isner, il circuito ATP perde un altro rappresentante di quella classe 1985 che ha sfornato nomi come Tsonga, Berdych e Wawrinka, unico che, per ora, non vuole ancora appendere la racchetta al chiodo. La loro “colpa”? Nascere esattamente nel mezzo di un’epoca dominata da Federer, Nadal e Djokovic. In virtù di un tennis così tripolare, quindi, non sono banali i 16 titoli ATP di “Long John”, di cui 6 ad Atlanta: il primo successo nel 2013 contro Kevin Anderson, un nome che ritroverà in carriera, l’ultimo – che poi è anche stato l’ultimo in assoluto – nel 2021, contro l’emergente connazionale Brandon Nakashima, quasi a voler rimandare ancora per un po’ il passaggio di consegne.

Altrettanto da incorniciare per Isner è stato il successo nel Masters 1000 di Miami, nel 2018, arrivato dopo tre delusioni in tornei di questa categoria, dalla sconfitta contro Federer a Indian Wells nel 2012, al tentativo – fallito – di arrestare l’onda d’urto di un Rafa Nadal in versione deluxe sul cemento nordamericano a Cincinnati nel 2013, fino alla finale persa, a Parigi Bercy, nel 2016 contro un Andy Murray che voleva fin troppo la vetta nel ranking ATP e che, per ottenerla, aveva bisogno di tutti i 1000 punti in palio nella capitale francese. Il quarto tentativo fu galeotto contro un altro gigante nel circuito – ma ben più giovane: quel Sascha Zverev sconfitto in rimonta in quella che sarebbe stata l’ultima partita nella storia giocata a Key Biscayne, lo storico e suggestivo impianto di Miami che emozionava un po’ di più chi aveva il privilegio di vincerci in casa. Isner provò a difendere il titolo anche nell’Hard Rock Stadium, un anno dopo, ma dovette arrendersi in finale a un eterno Roger Federer e a una frattura da stress al piede sinistro.

Ma se si pensa ai record e alla storia scritta da Isner, più di qualsiasi trofeo e più di un best ranking da numero 8 ATP, il nome di “Long John” sarà sempre legato a Wimbledon, il torneo dei sogni che lo statunitense non ha mai vinto, ma nel quale ha lasciato tracce indelebili. Tre giorni, un campo 18 prima semi-deserto e poi talmente affollato da trasformarsi in un Center Court onorario, un rivale, Nicolas Mahut, diventato un amico per la vita – e non sarebbe potuto essere altrimenti – e una partita vinta 70-68 al quinto set, che segna il confine tra chi vede il tennis soltanto come qualcosa da seguire a tempo perso e chi, al contrario, prova per questo sport una passione che va oltre le ore sul divano o in tribuna a dire di no a chi ti chiede di non vedere “come andrà a finire” in una calda notte di mezza estate di giugno 2010: chi dice Isner pensa soprattutto alla partita di tennis più lunga nella storia. Otto anni dopo, “Long John” ha provato a ripetersi, questa volta in un match che valeva una finale ai Championships, contro Kevin Anderson. La seconda volta, però, fu meno gloriosa e lo statunitense ne uscì sconfitto 26-24, sempre al quinto set, dopo 6 ore e mezza di gioco. La nuova maratona, comunque, convinse l’establishment di Wimbledon a rivedere le proprie tradizioni, prima con l’introduzione di un tiebreak da dentro o fuori sul 12-12 nel quinto set a partire dal 2019, poi con la decisione di uniformarsi alle regole degli altri Slam accettando il super-tiebreak di 10 punti per decidere le partite più combattute. Chissà che per Isner, più di qualsiasi trofeo o record, sapere di aver cambiato la storia di Wimbledon non sia il ricordo di cui essere più orgoglioso.

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