È sempre un piacere parlare di tennis con Davide Sanguinetti. L’ex Pro azzurro, da molti ricordato per i quarti di finale raggiunti a Wimbledon nel 1998, i due tornei ATP vinti in carriera tra cui Milano 2002 battendo Roger Federer in finale e le importanti prestazioni in Coppa Davis, dopo aver appeso la racchetta al chiodo nel 2008 ha intrapreso la carriera da coach, aprendosi al mondo e cercando esperienze a 360°. Del resto non è mai stato una persona banale, sia come tennis in campo – leggero e offensivo – che per le sue dichiarazioni, asciutte e schiette. Il nativo di Viareggio ha iniziato la carriera da coach allenando Vince Spadea, quindi per alcuni mesi Dinara Safina, sorellina di Marat ed ex 1 WTA, per poi passare in varie esperienze tra oriente e USA, assistendo il giapponese Go Soeda, il cinese Di Wu, i fratelli Ryan e Christian Harrison e lo specialista del doppio Michael Venus.
Adesso è da alcune settimane all’angolo del 19enne Shintaro Mochizuki, numero 271 ATP. Il giapponese è stato numero 1 del mondo Juniores nel 2019, anno in cui ha vinto l’edizione giovanile di Wimbledon. Sbarcato tra i Pro, a livello Challenger il suo miglior risultato è la semifinale raggiunta nel torneo di Matsuyama sul finire dello scorso anno. Nel 2023 ha un record di 23 vittorie e 9 sconfitte.
Nella chiacchierata con Davide abbiamo parlato del suo giovane assistito, tennista dal buon potenziale ancora tutto da forgiare, ma anche del suo passato da giocatore di College negli USA, per ricondurci alla serie di approfondimenti sul mondo tennistico universitario statunitense che continueremo a trattare anche in prossimi articoli. Sanguinetti da giovane scelse di girare il mondo, lasciando l’Italia a 18 anni per studiare in America tra la Harry Hopman Academy in Florida e UCLA in California. Un’esperienza che ritiene decisiva alla sua crescita umana e sportiva.
Davide, è la prima volta che si dedica a tempo pieno alla crescita di un tennista giovane come Shintaro Mochizuki. Le chiedo se e in cosa cambia l’approccio del coach quando si trova al fianco di un tennista ai primi passi nel circuito pro.
“Occorre lavorare molto sul piano mentale. È essenziale guidare il passaggio dall’essere un giocatore juniores al diventare un giocatore Pro. Due pianeti diversi. Con Shintaro in questa prima fase stiamo imparando a conoscerci: io sto provando piano piano a entrare nella sua testa, mentre lui sta cercando di aprirsi dal punto di vista caratteriale”.
Nella tournée americana Mochizuki ha giocato un gran torneo a Waco partendo dalle quali, ma sono rimasto colpito dalla partita di Shintaro a Puerto Vallarta contro Elias, in particolare da un dettaglio: la reazione e il fantastico livello di gioco mostrato nel tiebreak decisivo quando si è trovato sotto 1-6. Segno di forza mentale credo.
“È vero, quando gioca rilassato si nota e gioca ovviamente meglio. Mentre quando è avanti nel punteggio gli capita di avere dei passaggi a vuoto che lo portano a sbagliare e ad innervosirsi. Fra l’altro a Puerto Vallarta siamo arrivati in una situazione particolare. Shintaro nei quarti di Waco si era fatto male alla schiena e quindi siamo arrivati alla prima partita in Messico dopo quasi quattro giorni senza alcun tipo di allenamento. Ha giocato bene sia la prima partita che la seconda contro il portoghese pur perdendola, ma questi incontri tirati gli servono per capire cosa bisogna fare per vincere partite a livello Pro”.
Qual è la vostra programmazione per le prossime settimane?
“Adesso siamo in Francia, poi nell’ottica di vedere all’opera Shintaro su tutte le superfici, ci metteremo alla prova sulla terra battuta. In pratica giocheremo fino al Roland Garros tornei su terra”.
Nel tennis di Mochizuki un colpo sicuramente da migliorare è il servizio. In che modo pensa di lavorarci su?
“Innanzitutto occorre lavorare sul fisico e aumentare la massa muscolare. Poi dal punto di vista tecnico ci concentreremo sulla spinta delle gambe e della schiena. Il movimento del servizio è una catena e questi due elementi, gambe e schiena, mancano un po’ nel servizio di Mochizuki”.
Lei ha avuto un’esperienza importante in un College americano. In cosa è stata particolarmente formativa dal punto di vista tennistico e ci sono secondo lei differenze fra i giocatori che uscivano 15-20 anni fa dal College e i giocatori di oggi?
“Per me l’esperienza al College è stata fondamentale. Appena uscito dall’università infatti sono subito riuscito a entrare nel circuito Pro. Nei tornei e campionati universitari ciò che viene formata e allenata è la competitività, l’essere pronti settimanalmente a giocare partite importanti e di buon livello. Mi è servito tantissimo. Una differenza invece che mi pare di poter individuare con i tennisti che escono oggi dai College è la cura dell’aspetto fisico. Il mio coach al College non era molto interessato alla parte atletica del tennis e quindi sono stato io poi nel corso degli anni a dover inseguire e migliorare questo aspetto del gioco”.
Un’ultima domanda sulla questione palline e lentezza dei campi. Molti giocatori si lamentano delle palline che non vanno e delle superfici sempre più lente. Cosa ne pensa?
“È innegabile. Si sta cercando di rallentare il gioco… i giocatori si lamentano, ma questa scelta è fatta per il pubblico e per rendere migliore lo spettacolo sul campo da gioco. Certo rispetto a quindici anni fa il paragone è quasi impossibile… Le palline erano veloci e i campi super-veloci… tutto un altro pianeta rispetto alle condizioni di oggi”.
Antonio Gallucci
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