Mai successo che una nazionale africana si qualificasse per i Mondiali di basket al primo tentativo. C’è riuscito il Sud Sudan, lo Stato più povero al mondo e quello con l’indice di sviluppo umano peggiore. La squadra, che gioca sempre in trasferta perché non ci sono impianti ed è formata da giocatori residenti all’estero, fuggiti dagli orrori delle guerre civili, ha compiuto un’impresa dai contorni storici.
Ad Alessandria D’Egitto il Sud Sudan ha riscritto la storia sotto il canestro battendo 83-75 il Senegal e qualificandosi per i campionati iridati(25 agosto-10 settembre). L’allenatore è Royal Terence Ivey, 42 anni, assistente allenatore dei Brooklyn Nets. Ma la sua franchigia non l’ha liberato per questa “finestra”. Così in panchina è andato Luol Deng, due volte All-Star NBA, fuggito dal Paese con la famiglia quando era bambino e arrivato nel Regno Unito, cittadino britannico dal 2006 che non ha mai dimenticato le sue origini. Da quattro anni è il presidente della federazione della sua nazione. Ha messo al proprio servizio una rete di conoscenze poco comune in Africa, i suoi rapporti nel mondo della finanza, da investitore in hotel, resort, condomini, per un patrimonio personale complessivo di 125 milioni di dollari. Nell’agosto scorso Luol Deng ha finanziato di tasca propria un viaggio per la squadra a Giuba.
All’aeroporto c’erano 7 mila persone per accogliere il rientro in patria dei giocatori come eroi nazionali. Alcuni di loro non vedevano la famiglia da 9 anni. Dal 2013 al 2020 nessun giocatore della nazionale ha vissuto nel Sudan del Sud a causa della guerra civile: quattro giocatori sono orfani a causa della guerra e due di loro sono nati in campi profughi in Kenya. Sei ragazzi della squadra (Junior Madut, Bul Kuol, Mathiang Muo, Deng Acuoth, Majok Deng, Sunday Dech) giocano e vivono in Australia. Altri due, Gob Gabriel e Mareng Gatkuoth, giocano per delle università americane, Koch Bar vive in Danimarca. In Sud Sudan c’è anche un po’ d’Italia, dal momento che il toscano Stefano Cusin è da qualche anno ct della Nazionale di calcio. «Gli approcci – ha detto il tecnico – sono completamente differenti, però è importante che lo sport aiuti a unificare il Paese. Quando arrivai io si partiva di zero, sia dal punto di vista infrastrutturale che sotto il profilo della qualità dei giocatori. Abbiamo lavorato sulla prima squadra, poi sull’Under 20 e sul settore giovanile, in modo da avere una base per il futuro. Non c’era altra scelta, del resto…»
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