Rune: prima possibile, primo fra tutti

Non sappiamo se Rune alla fine di questo Master 1000 Parigi-Bercy piangerà come nella finale ATP di Sofia vinta da Hüsler o se sventolerà il suo pugno contro l’avversario come fa, accanto al coach Patrick Mouratoglou, anche l’inseparabile mamma manager Aneke, verso cui va costantemente il suo sguardo in cerca di approvazione o per chiedere sostegno. A Parigi-Bercy, qualche giorno fa, lo svizzero Stan Wrawrinka, che è cresciuto in campagna in una fattoria, sperimentando la fatica e le difficoltà della vita, lo ha indirettamente ‘bollato’, quando, alla fine della partita, gli ha consigliato, sussurrandoglielo all’orecchio, di smettere di fare il bambino in campo.

Ci ha pensato la mamma a difenderlo, confermando, con la sua tutela, l’acerbità dell’adolescente. È giovane, il diciannovenne danese Holger Rune, rispetto al trentacinquenne Novak Djokovic. Ma dal punto di vista atletico Nole non sembra accusare stress: dopo 36 minuti chiude a 6-3 il primo set.

Dopo questo, tuttavia, nel secondo set Rune si riprende. Non ostenta più il piglio arrogante ed esultante a cui ci ha abituati. Tuttavia il linguaggio del corpo continua ad esprimere ruvidezza, anche dovuta all’età: la camminata dinoccolata, il modo di sollevare il pubblico saltellando e sbracciando. Pacato ed elegante Djokovic; pieno di tic nervosi, irrequieto il ragazzo, talvolta precipitoso, ma sicuramente preparatissimo, brillante e talentuoso. E come potrebbe non esserlo? Cresciuto a latte e tennis dalla madre che è stata anche sua allenatrice di tennis, a 12 anni Rune ha cominciato ad avere i primi riconoscimenti sportivi, bruciando sempre le tappe, scegliendo precocemente di misurarsi coi professionisti. Distintosi molto presto per un ego smisurato, una voglia di superare i suoi coetanei, di dominare, già a 16 è stato seguito da un mental coach con un’esperienza acquisita nelle Forze Speciali Danesi, che ha contribuito a rendere solida la sua forza mentale.

Sul campo oggi non si affrontano solo Nole e Rune, ma il tennis alla vecchia maniera, descritto da David Foster Wallace come “esperienza religiosa” e l’evoluzione del tennis in potenza e muscoli, rappresentato dalla nuova generazione di talenti come Rune e Alcaraz. Noi della generazione più vicina a Djokovic seguiamo col fiato sospeso e il cuore in gola la partita, tremando nei momenti interminabili delle palle break, soprattutto nel terzo set. Ad un certo punto ci sembra addirittura che Nole, campione che non mollerebbe mai, voglia fare un regalo al ragazzo che per qualche verso gli ricorda se stesso da giovane. Forse per quell’affermazione che non sarà soddisfatto finché non diverrà il numero 1 del mondo. Non ci stupiremmo di vedere, un domani, Nole coach di Rune…

Fatto sta che Rune, alla fine, rimonta e vince il plurititolato campione, correndo subito dal suo coach e dalla mamma, da abbracciare e da cui farsi lungamente abbracciare. Con questa vittoria Rune entra tra i primi 10 del mondo, come programmato, anzi anticipando forse i suoi stessi programmi. Ha dato davvero il massimo in pochissimo tempo, ha affrontato con fredda determinazione una straordinaria scalata del ranking. Continuerà a correre verso l’alto, a stupirci bruciando i suoi record.

Però dovrà forse aspettare di crescere ancora un po’, il giovanissimo, prima di capire che il bello del tennis non è l’ossessione di completare la lista di vittorie, proclamando spavaldamente il proprio primato (gli dei puniscono la hybris).

Il bello del tennis è sportività, eleganza, stile, grande rispetto dell’avversario, equilibrio, tensione verso la suprema Armonia. Lo sanno bene “Quelli che…”

Gisella Bellantone


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