Il 28 marzo 1983 sembra una data qualsiasi perduta nel passato. Se invece retrocedessimo nel tempo potremmo vedere, sul campo centrale del Country Club di Montecarlo, il giovane e talentoso francese Henri Leconte opposto al grande Bjorn Borg. La crisi dell’Orso è da tempo più che palpabile, per via della schiena malandata, ma ancora di più per la sua crescente difficoltà nel dominare i migliori rivali. Raccontano gli annali che dopo la sconfitta dell’81 agli US Open (la quarta), il campione svedese si sia dileguato prima dell’inizio della cerimonia di premiazione e della conferenza stampa. McEnroe aveva vinto, era il nuovo numero uno e lui non aveva più la motivazione per cercare di detronizzarlo. A venticinque anni, l’età in cui oggi molti giocatori maturano arrivando poi, in molti casi, fino alla soglia dei quaranta, per lui è l’inizio della fine. Vince ancora a Ginevra prima di chiudere definitivamente la stagione, facendo un’unica apparizione l’anno seguente proprio a Montecarlo, sconfitto ai quarti da Noah. Nell’83 esordisce ancora al Country Club, batte Clerc e poi perde appunto da Leconte, che bisserà il successo al primo turno di Stoccarda, il suo unico match nell’84, quando dirà ufficialmente addio al tennis. Il torneo monegasco, che lo svedese vinse in tre occasioni (’77, ’79 e ’80) è stato lo scenario del suo tramonto, ma anche del suo triste tentativo di rientro nel 1991, incapace, con la sua iconica Donnay di legno, di contenere le palle arrotate dalla Dunlop in fibra di Jordi Arrese.
Quel 28 marzo del 1983 il sole splendeva su Montecarlo e la brezza marina si insinuava fra le tribune del campo centrale. Ve lo dico con cognizione di causa perché su quelle tribune c’ero anch’io. Mentre con un occhio guardavo Leconte che le suonava a Borg, ormai sicuro di presenziare il declino definitivo di un mito, con l’altro, mobile come quello di un camaleonte, vagavo intorno, un po’ verso il mare solcato da misteriosi velieri, un po’ verso la zona Vip popolata da avvenenti monegasche, un po’ verso la terrazza del ristorante, cercando di riconoscere da lontano i campioni che mi facevano sognare…. Ecco Noah!… Vilas!… Wilander!…. Ecco Panatta e Bertolucci davanti a un bel piatto di spaghetti, poco prima del loro match di doppio!… Beh, questo temo proprio di essermelo inventato, ma Montecarlo sembra fatto apposta per far volare la fantasia.
Il Country Club, sede del torneo dal 1928 è, con tutto il rispetto per l’homo faber americano, l’esatta antitesi di Indian Wells. Da una parte un gigantesco stadio ottagonale, quasi una nave spaziale atterrata nel deserto californiano, dall’altra un piccolo e discreto gioiello dell’architettura Art déco; l’uomo che ha domato e sottomesso la natura, rendendo una zona ostile un paradiso per nuovi ricchi, e il suo vecchio fratello europeo che ha saputo adeguarsi alla natura costruendo, grazie a una struttura a terrazze, una ventina di campi da tennis abbarbicati fra mare e montagna; la spettacolarità ostentata del nuovo millennio e il fascino discreto di una storia antica.
Come sappiamo, per ripercorrere questa storia dobbiamo risalire alla fine dell’Ottocento, epoca in cui molti britannici, non proprio costretti dalla necessità a guadagnarsi il pane quotidiano, vanno a svernare, a caccia di sole e glamour, sulle coste della Riviera e della Côte d’Azur. Nei loro bagagli non mancano gli attrezzi necessari per praticare l’amato lawn tennis, che viene così progressivamente esportato oltre i confini dell’Inghilterra. Con il tempo si costruiscono i primi campi, spesso annessi ai grandi alberghi di lusso, che poi cederanno il passo ai primi circoli e ai primi tornei. Montecarlo, come anche Bordighera in Italia, è senza dubbio un terreno favorevole perché il nuovo sport attecchisca e il 2 aprile del 1893 viene inaugurato, sul tetto di una dépendance dell’Hotel de Paris, il Lawn Tennis de Monte-Carlo, poi spostato in diverse zone del Principato fino a dare origine, nel 1925, all’attuale Country Club, situato nel comune limitrofo di Roquebrune-Cap Martin. Non tutto è romanticismo e chi ne volle la costruzione fu, guarda un po’, proprio un homo faber americano, tale Pierce Butler, intraprendente uomo d’affari e grande appassionato di tennis, spinto dal desiderio di offrire alla diva francese della racchetta Suzanne Lenglen uno scenario degno della sua caratura, progettato dall’architetto parigino Charles Letrosne.
Già nel 1897 si organizza la prima edizione del torneo e per una decina d’anni gli inglesi fanno la parte del leone, anzi la fa una sola famiglia, visto che la coppa passa alternativamente dalle mani di Reginald Doherty a quelle del fratello Laurence, conosciuti all’epoca come “Big Do” e “Little Do”. A questi cominciano poi ad affiancarsi giocatori di altre nazionalità, come il neozelandese Anthony Wilding, che vincerà cinque edizioni prima di morire tragicamente sul fronte durante la Grande Guerra. Riesumare l’albo d’oro di un torneo come questo è un modo per ripassare l’evoluzione del circuito -a cominciare dalla nascita dell’Era Open ed il superamento della frattura professionismo/dilettantismo- e soprattutto per rispolverare i nomi dei protagonisti: si trovano un po’ tutti i grandi terraioli (specie ormai di fatto estinta), fino ad arrivare naturalmente al dominio di Nadal, campione undici volte e “colpevole” di aver sbarrato la strada in tre finali consecutive a Fererer, il più celebre assente nell’elenco dei vincitori.
E gli italiani? Nel ’22, dopo l’interruzione bellica, vinse un ex calciatore del Genoa, il conte Giovanni Balbi di Robecco, un nome che pare uscito dalla penna di Paolo Villaggio. Il tennis era ancora uno sport elitario da figli e figlie di papà, anche se le cose presto sarebbero fortunatamente cambiate, dando spazio a campioni di origini popolari. È il caso di Giovanni Palmieri, il secondo italiano ad alzare, nel 1935, la coppa di Montecarlo, che ha una storia poi sentita tante volte: raccattapalle al Circolo Parioli, di cui poi diventerà custode, allenatore e sparring dei soci e infine, grazie ad un’esenzione federativa che lo “riqualifica” come dilettante, giocatore nel circuito. Ho voluto ricordarli perché il loro nome è stato offuscato dai meritatissimi successi più recenti di Fabio Fognini nel 2019 e, prima dell’Era Open, di Nicola Pietrangeli (‘61,’67,’68), che qui è a dir poco di casa e che è da sempre un ospite fisso delle tribune e delle attività sociali e festaiole che accompagnano la settimana tennistica del Principato. Di quell’atmosfera romantica del tennis che fu, forse un po’ mitizzata dalla lontananza nel tempo, è anche testimone Lea Pericoli, altro ospite fisso a Montecarlo, dopo aver partecipato in innumerevoli occasioni come giocatrice. Sì, perché forse non tutti sanno che il torneo di Montecarlo ha avuto anche, dal ’47 all’82, una versione femminile, prima dilettantistica e poi regolarmente inserita nel circuito WTA. Nell’albo d’oro del singolare figurano anche Annalisa Ullstein Bossi (’49), Annalisa Bossi Bellani (’57) e Silvana Lazzarino (’54), che in coppia proprio con la Pericoli vinse anche il doppio per tre volte consecutive (dal ’64 al ’66).
A proposito di doppio: se avessi la possibilità di presenziare dal vivo un match riesumato dalla storia di questo torneo posizionerei l’orologio della mia macchina del tempo su un altro giorno di una lontana primavera, il 31 marzo 1980. Avrei un posto privilegiato in una tribuna Vip a bordo campo e mi godrei la vittoria di Panatta e Bertolucci ai danni di McEnroe e Gerulaitis. Poi un Martini ghiacciato sulla terrazza panoramica del Country Club, coquillages con champagne nel mitico ristorante Le Pirate e, dopo il tradizionale party con i giocatori, le ore piccole al Jimmy’z. Montecarlo sembra fatto apposta per far volare la fantasia.
Paolo Silvestri
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