La favola di un guerriero e di un Avenger e la favola di un “Nemo, profeta in patria” che, come Davide, ha sconfitto quello che per lui da ranking era un Golia. Le vittorie di Matteo Berrettini e Tim Van Rijthoven, rispettivamente negli ATP 250 di Stoccarda e di Hertongenbosch, sono più simili di quel che sembra sia nel risultato che per valore simbolico
IL NUOVO RANKING ATP
Per capire come un titolo non sia mai scontato, basta rivedere il momento in cui Matteo si lascia andare a un pianto liberatorio al termine di una finale leggera e tagliente come gli slice con quali il romano si è dato battaglia con Andy Murray e al tempo stesso pesante e dal sapore di una sentenza come i 19 ace messi a segno da Berrettini in tre set. Per lo scozzese, il rimpianto è stato aver giocato un terzo parziale mutilato nel fisico, ma non nello spirito. Rimane agli atti, però, che, a 35 anni, Murray dà ancora lezioni di tennis e di vita ai propri coetanei, come hanno sperimentato uno spento Tsitsipas e un immaturo Kyrgios tra quarti di finale e semifinale. Aver giocato la settantesima finale in carriera è un traguardo soltanto leggermente macchiato dal risultato finale. Tre anni fa, lo scozzese era impegnato in una riabilitazione titanica, dopo che gli era stata impiantata un’anca di metallo e dopo che aveva seriamente pensato di lasciare il tennis – tanto da aver formalmente annunciato il proprio ritiro agli Australian Open. Oggi Murray è rientrato tra i primi 50 al mondo e, se sta bene, a Wimbledon potrebbe sognare qualcosa di importante. Se cercate Sir Andy sul dizionario, lo trovate alla voce “Avengers”.
Non sarà stato un Avenger, ma sicuramente è un esempio anche Berrettini, perseguitato dagli infortuni nell’ultimo anno. Arrivato in finale a Wimbledon, dodici mesi fa, il romano si era stirato il polpaccio tra terzo e quarto set, abbandonando così la speranza di vincere una finale che in realtà gli si era già parecchio complicata contro Djokovic. Nonostante lo stop, Matteo si era comunque qualificato per le ATP Finals in casa, a Torino. Peccato che, nel primo incontro di round robin, contro Alexander Zverev, Berrettini era stato tradito dagli addominali, tanto da doversi ritirare nonostante un disperato medical timeout. Le lacrime inconsolabili, le faccine tristi sulla telecamera e lo sgomento di un Palalpi Tour gremito sono ancora nella mente di tutti. Il rientro in campo, direttamente per gli Australian Open, aveva regalato al romano una splendida semifinale, fermato soltanto dalla leggenda Nadal, ossia l’esempio supremo di come si rientra alla grande dopo un grave infortunio. Quando finalmente, però, sembrava che tutto si fosse sistemato, era arrivato il nuovo shock al sistema: problema alla mano e prima operazione in carriera. Andare sotto i ferri ha un impatto psicologico completamente diverso rispetto a rimanere fermi e aspettare che il dolore passi. Ci si prende un rischio in apparenza maggiore per il fisico, ma si sceglie di credere che sistemare alla radice qualcosa di rotto possa portare ancora più benefici con il tempo. La distanza tra volerlo credere e riuscire a crederlo davvero, però, è enorme. Un’operazione non è un semplice infortunio: un’operazione rende fragili, costringe a pensare, inevitabilmente scatena in chi l’ha subita più di un dubbio. Tornare in campo dopo soltanto 84 giorni e mettere a tacere le paure, che magari esistono ancora, ma sono state giustamente chiuse in un cassetto, affidarsi alle proprie certezze, ossia il servizio e il dritto, e rimanere in partita mentalmente nonostante tre mesi di inattività, sono qualità che appartengono soltanto ai migliori. E Matteo Berrettini a Stoccarda è stato indubbiamente il migliore.
A proposito di quanto fragile possano rendere gli infortuni, Tim Van Rijthoven avrebbe avuto uno splendido futuro, se soltanto il polso, la spalla e più o meno qualsiasi altra articolazione non avessero deciso di congiurare contro di lui. L’olandese, così, è arrivato a 25 anni senza aver mai vinto una partita ATP. A Hertongenbosch, l’attenzione era tutta su Tallon Griekspoor, reduce da un 2021 in cui ha vinto otto Challenger, e su Botic van de Zandschulp, che vanta un quarto di finale agli US Open raggiunto nove mesi fa. Sui prati familiari, è scattata la magia: Van Rijthoven ha sconfitto al secondo turno Taylor Fritz, un altro passato dal chirurgo per problemi al menisco e che poi ha vinto il Masters 1000 di Indian Wells nove mesi dopo l’operazione, in semifinale Auger-Aliassime e in finale il neo-numero 1 al mondo Daniil Medvedev. La wild card a Wimbledon sarebbe più che meritata per l’olandese. La classifica non sarà più un grande problema per lui, ora che Tim è vicino all’ingresso in top 100 per la prima volta in carriera. Avere speranza dopo ogni infortunio, però, forse è una vittoria maggiore di ogni trofeo da lucidare e da sistemare in bacheca a casa.
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