La vittoria di Alcaraz a Madrid è la conferma della classe di questo nuovo fenomeno del tennis mondiale. Un diciannovenne capace di vivere con leggerezza attese e pressioni, firmando record e trionfi. Un approccio diverso dall’avversario battuto in finale, quell’Alexander Zverev osannato da teenager ma non ancora in grado di fare quell’ultimo e decisivo salto di qualità
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A ben rifletterci, la finale nel Masters 1000 di Madrid tra Carlos Alcaraz e Alexander Zverev ha già visto avvenire un ulteriore passaggio di consegne: tra chi è stato per anni presentato come un predestinato e forse ha raccolto meno di quanto ci si aspettasse (ma guai a pensare di essere “vecchi” a 25 anni) e chi, al contrario, è un predestinato che è già andato oltre ogni aspettativa.
Alcaraz è un fenomeno, non lo si è scoperto di sicuro ieri. Anzi, quasi sembra che la parola fenomeno sia qualcosa di cui si abusa anche a torto, perché colpevoli di essere incapaci nel trovare una definizione più calzante per lui. “Charlie” è il più giovane vincitore di sempre a Madrid, dopo che era stato il primo spagnolo a trionfare a Miami il mese scorso, un’impresa che in carriera non è mai riuscita a un tale Rafa Nadal, per intenderci. Oggi è il nuovo numero 6 nel ranking ATP a 19 anni. Un ulteriore miglioramento dopo che, in ossequio proprio a Nadal, anche Alcaraz era entrato in top ten il 24 aprile. Per Rafa correva l’anno 2005, per Carlitos il 2022.
Soprattutto, però, questo straordinario teenager spagnolo, con la dinamite nel braccio e il sorriso contagioso di chi è un’anima bella, sembra baciato da una qualità propria soltanto ai più grandi di sempre: vivere il proprio status di predestinato con un’insostenibile leggerezza e con un sentirsi in pace con se stessi che generalmente si raggiunge molto più in là con gli anni, quando, guardandosi indietro, si riflette su chi si è stati e su chi si sarebbe potuti essere. Il modo in cui Alcaraz gioca a tennis e il modo in cui poi si presenta fuori dal campo è da esempio sia per bambini che per gli adulti. Nonostante abbia costantemente gli occhi puntati su di sè, Carlitos sembra essere immune a ogni lotta interiore, dubbio paralizzante o segreto di Fatima da scoprire su se stesso. Si sente a proprio agio sia nei propri pregi che nei propri difetti ed è felice di come sta crescendo e della persona che è: una gioia per gli occhi e per il cuore.
Il dubbio paralizzante, invece, negli anni ha finito per rallentare sempre più il braccio di Alexander Zverev, al di là di quel doppio fallo a rete con cui ha chiuso una finale in cui non è mai stato davvero in partita. Zverev, al contrario, è l’esempio di cosa voglia dire essere predestinati, ma sentirsi il mondo sulle spalle e un peso nel petto. Osannato fin da teenager per aver sconfitto Roger Federer sull’erba di Halle nel 2016, dopo che era andato a una volée sbagliata dalla vittoria contro Nadal a Indian Wells tre mesi prima, Sascha ha provato a costruirsi la robotica corazza di chi non deve chiedere mai niente a nessuno, rinunciando però alla spensieratezza di chi, a 20 anni, ha il diritto di sbagliare e di prendersi il tempo di cui ha bisogno per crescere. Ed è probabile che il destino ci abbia messo lo zampino quando, di nuovo con una improvvida volée sbagliata, il tedesco ha visto sfumare l’unico traguardo che fino a ora gli manca: uno Slam. Agli US Open era in vantaggio di due set, di un break nel terzo parziale e ha servito per il titolo nel quinto, ma il trofeo è comunque finito in mano a Dominic Thiem. Curiosamente, anche a Madrid una volée sbagliata ha aperto la diga concedendo ad Alcaraz il primo di quattro break complessivi. Il problema di essere predestinati è sentire che la clessidra scorre sempre un po’ più veloce che per gli altri, ma il “viaggio” di Zverev, comunque, rimane una cartina al tornasole di come, anche se presentati come destinati al successo, la via verso il traguardo possa essere un po’ più accidentata di quanto ci si aspettasse.
Negli anni il tedesco ha dovuto imparare (e sta ancora imparando) a gestire le emozioni, il che richiede un enorme supplemento di maturità e, perché no, di coraggio. Se dopo aver perso nei quarti di finale a Toronto nel 2018 contro Stefanos Tsitsipas, si era presentato in conferenza stampa parlando di “match patetico”, ieri Zverev è stato invece perfetto nel riconoscere i meriti di Alcaraz: “Hai cinque anni e già sei il più forte giocatore al mondo in questo momento”, gli ha detto scherzando. E che non fossero parole di circostanza si è capito dai sorrisi e dai complimenti che gli aveva riservato per tutta la settimana. Questo Sascha 2.0, che sembra meno freddo e prova a essere meno arrabbiato con se stesso e con il mondo, rimane comunque un tennista con una marcia in più: 30 finali ATP e cinque Masters 1000 a 25 anni, più una medaglia d’oro alle Olimpiadi e due ATP Finals, sono numeri notevoli, passati sottotono ieri soltanto per la meteorica ascesa di Alcaraz. La seconda metà di 2021, tra le Olimpiadi di Tokyo e le ATP Finals, dimostra che uno Zverev in fiducia è senza dubbio tra i più giocatori più completi al mondo ed è possibile soltanto immaginare quanto benefica per il tennis possa essere una vera rivalità con Alcaraz.
Quindi, il messaggio che rimane di una finale troppo breve e troppo brutta per essere vera è che nella vita (e nello sport) bisognerebbe aspirare a essere squisitamente “leggeri” e in pace con se stessi come Alcaraz, ma spesso, anche se si è predestinati, è altrettanto naturale percorrere la propria strada ondeggiando e a volte perdendosi un po’ come succede a Zverev.
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