E poi resterà lui, Francesco Bagnaia, l’unico italiano a entrare in maglia azzurra nello stadio della finale del Mondiale di calcio in Qatar. Lo ha fatto all’inizio stagione, per una di quelle foto promozionali che mettono insieme i cavoli e la merenda. Adesso che ha vinto non intende stravincere, anzi: «Mi sembra che negli ultimi due anni lo sport italiano sia salito sul tetto del mondo. Ci sono anch’io là in alto. Con tanti altri. Ne sono felice». Figuriamoci noi. Figuriamoci lo sport italiano, o meglio il Paese intero che lo ha coperto di ringraziamenti per il Mondiale della MotoGP conquistato ieri, o meglio raccolto da terra dopo aver seminato gli avversari lungo il cammino di una caccia al tesoro più che di un campionato normale. Il presidente Mattarella lo ha invitato (assieme al team) al Quirinale il 16 novembre; e poi i messaggi , dal sindaco di Pesaro che lo vuole cittadino onorario al presidente del consiglio dei ministri. La Juventus è stata la prima ad arrivare, con i filmati di Vlahovic, Chiesa, Locatelli e Bonucci che gli spiegano: «Noi lo sapevamo». Ora Bagnaia avrà tempo e maniera di fare tutto ciò che desidera, la vacanza sulla neve in cui sta cercando di trascinare la compagna Domizia Castagnini, il completamento della sua collezione di scarpe da ginnastica, ammesso che gliene manchi qualcuna, aprire un ristorante e cucinare in proprio. Ma sono tutte questioni del futuro prossimo o distante. Per adesso lasciamolo dov’è nato e cresciuto, nello sport appunto, nel motociclismo in particolare. Non ha ancora finito di scardinare il suo ambiente naturale, anche se poco ci manca. Mentre aspettava di essere interrogato da quegli spaccascatole dei giornalisti, assiepati intorno a lui come quando il mondo era diverso, aveva lo sguardo di un bambino stanco. Forse lo stesso di quando restò ipnotizzato dalle luci rotonde della nuova Aprilia del padre. A venticinque anni ha appena cominciato a cambiare le regole del suo gioco. Il primo titolo mondiale, quello del 2018 in Moto2, era una cosa. Questo che si porterà incollato alla fronte per un anno almeno – probabilmente con il numero 1 visto che glielo hanno stampato su tutti i souvenir come per un lavaggio del cervello – è tutta un’altra. È un’epoca che finisce e un’altra che ne prende il posto. È una traccia di vita per un Paese che talvolta dimentica di essere vivo, energico ed eternamente creativo. Ma non trasciniamo Bagnaia fuori del suo rifugio, non ancora. Stiamo al motociclismo.
Erano tredici anni che un italiano non vinceva in classe regina ed è inutile ricordare che l’ultimo era stato Valentino Rossi nel 2009. Erano cinquant’anni che un italiano non ci riusciva su una moto italiana e non è inutile, ahinoi questo tempo che passa, ricordare che parliamo di Giacomo Agostini con la M V Agusta. Vale e Mino entrambi a Valencia per la propria fetta di ricordi. Ma non solo. Bagnaia è arrivato al titolo su una moto italiana e con una squadra italiana, cosa che poteva apparire impraticabile negli ultimi anni. E gli uomini della Ducati hanno provveduto a farglielo notare, italianamente irrompendo nella sala delle interviste con le parucche rosse simili a quelle lanciate dalla Ferrari nel 2000 il giorno della vittoria del campionato costruttori. Simboli che si sfiorano, a distanza di decenni. Oh, lo avrebbero fatto anche inglesi e olandesi, ma probabilmente non da sobri. I giapponesi no, non lo avrebbero fatto mai. Non è una sostituzione etnica, naturalmente, ma forse una sostituzione culturale sì. L’eterno ritorno dell’identico, il risorgere di un’epoca in cui intorno alle piste delle gare di moto si parlava italiano come lingua franca. O forse è solo un’altra parentesi della storia. Però inserita con stile. Bagnaia non avrebbe potuto vincere questo Mondiale, era impossibile, almeno quanto ieri non avrebbe potuto perderlo grazie al vantaggio ormai accumulato. A un certo punto si è trovato sotto di 91 punti. Non solo li ha recuperati: ce ne ha messi sopra altri 23. Con dieci podi e sette vittorie. Quattro delle quali in fila, e questo lo inserisce in un elenco che prima comprendeva soltanto Rossi, Jorge Lorenzo e Marc Marquez. Ora dicono che venticinque anni siano troppi per conquistare il primo titolo in MotoGP, considerata la moda imperante dei piloti ragazzini. Pecco li guarda con quegli occhi che più giovani non si può e risponde che perché le cose accadano non esiste un momento migliore di quello in cui accadono.
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