TORINO – L’annullamento del GP di Cina, ufficializzato nei giorni scorsi ma ampiamente previsto (e prevedibile), si è reso necessario a causa delle restrizioni per Covid che Pechino ancora adotta. Restrizioni che non riguardano solo lo sporte che hanno provocato proteste e manifestazioni anti governative. Pare che la Cina voglia passare dal modello “Zero-Covid” a una politica “mortalità zero”, cosa che avvicinerebbe il modello cinese a quello usato nella gran parte dei paesi nel mondo. Ma intanto, in un quadro di incertezze, gli organizzatori del Mondiale – l’organizzazione diretta da Stefano Domenicali – sono stati costretti a cancellare la data. Ormai l’ultimo GP della Cina è quello del 2019.
Per la Formula 1 dover rinunciare al palcoscenico cinese è certamente un brutto colpo sotto l’aspetto commerciale. L’arrivo nel Mondiale del primo pilota cinese, Guanyu Zhou, ha acceso un interesse che in precedenza era sempre stato piuttosto tiepido. Correre a Shanghai sarebbe un tassello importante nella strategia di espansione della Formula 1, così come lo sarebbe anche per le altre categorie del motorsport, alle prese con le stesse difficili tematiche. Ma adesso viene da chiedersi se davvero tutti i mali finiscano con il nuocere o, più propriamente, a chi nuocciano. La Formula 1 sta crescendo ovunque: negli Stati Uniti ha incontrato un favore di pubblico come non era mai accaduto prima; i Paesi del Golfo pesano sempre di più; si sta preparando il ritorno in grande stile in Africa (ovvero in Sud Africa). Dunque, sembra essere più la Cina, con questa politica di estrema prudenza (e di conseguente isolamento) a perderci, che la Formula 1. E se, per mantenere il calendario a 24 gare, si trovasse un nuovo appuntamento europeo, per il vecchio Continente sarebbe un modo per bilanciare la crescita dei nuovi GP. Decisamente, potrebbe andare peggio…
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