TORINO -Ci si inchina, appassionati e ammirati al cospetto della Warriors Dynasty che ormai ha assunto le dimensioni di un impero, assimilabile a quello dei Chicago Bulls Anni 90 (6 titoli), dei San Antonio Spurs 90-2000 (5 titoli), dei Lakers Anni 80, capaci di 5 titoli su 9 finali in 12 anni. Un po’ diverso il discorso per i Lakers di Kobe Bryant, perché all’inizio non erano di Kobe, pur determinante nel titolo 2000. Ma è soprattutto questione di caratterizzazione del gioco e di avere una guida. Le quattro dinastie avevano e hanno un giocatore di estremo riferimento che ha cambiato il gioco o la percezione dello stesso. E avevano un allenatore-guida. Poi certo, c’erano anche altre superstar, un secondo violino e a volte un terzo. Ma due nomi accomunano le 4 storie, in ordine cronologico. Magic Johnson e coach Pat Riley, lo showtime. Michael Jordan e Phil Jackson a Chicago, Tim Duncan e Gregg Popovich a San Antonio. Infine Steph Curry e Steve Kerr a Golden State, appunto. Prendendo spunto da una pubblicità varrebbe la pena di dire No Stph, No party. Perché è vero che il gioco di condivisione e di occupazione di spazi prima di Curry e Klay Thompson e del loro tiro da tre da distanza superiore ha cambiato tutto, ma è altrettanto che proprio l’avvento di Curry, la sua bidimensionalità e la crescita costante, l’etica del lavoro, la sfrontatezza nel mostrarsi, hanno dato una dimensione diversa al fenomeno. Il quarto titolo in 8 anni su 6 finali, è però il capolavoro. Perché nel frattempo Golden State ha visto partire Kevin Durant e ha dovuto attendere 940 giorni Klay Thompson, frantumatosi prima il crociato e poi il tendine d’Achille. Al secondo infortunio altre franchigie avrebbero desistito, cominciato la ricostruzione, Golden State ha creduto nel gruppo, nella crescita di altri giovani (nonostante l’infortunio a Wiseman, seconda scelta assoluto 2020 e fuori tutta questa stagione e un pezzo dell’altra), nel magnifico terzetto, forse il trio più forte della storia: Curry, Thompson e Draymond Green. Due anni di attesa e sconfitte. E poi il ritorno, con protagonisti nuovi, rilanciati come Andre Wiggins, cresciuti come Jordan Poole e Kevon Looney, pure lui tornato da infortuni. Così il 103-90 di gara-6 a Boston è l’apoteosi perché, finalmente, il premio di miglior giocatore è andato al capo, che già aveva due trofeo da Mvp stagionale, ma mai delle finali. E Steph alla fine ha detto: “Abbiamo ancora tanto da re”.. una promessa per i compagni e per gli appassionati che arrivano due ore prima in ogni arena per vedere il suo riscaldamento ormai mitico, con tiri da ogni posizione, palleggi, movimenti mai visti prima. E una minaccia per gli avversari. Con la sfrontatezza di chi in partita dopo una canestro ha indicato il dito per il nuovo anello e poi ha mandato tutti a nanna, con il gesto che si fa ai bambini per portarli a dormire. Steph è tra gli eletti. il miglior playmaker della storia. Non lo diciamo noi, ma i suoi compagni Iguodala e Green
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