Alzi la mano chi, nell’agosto del 2018, all’indomani dell’annuncio del sodalizio motoristico con Honda, avrebbe scommesso che i primi, veri castigatori della Stella a Tre Punte nell’era turbo ibrida sarebbero stati loro, i bibitari della RedBull. E alzatele per bene e per tutto il team, non solo per Newey o Verstappen: in troppi ci ricordiamo fin troppo bene di quando si presagiva il passaggio dell’uno o dell’altro in una scuderia diversa, per poter finalmente vincere e convincere. Alzatele anche per Honda, per la bistrattata power unit che dal 2015 ha subito paragoni più umilianti del concetto di bevanda gourmet ogni volta che Daniel Ricciardo sale sul podio. Difficile farlo con convinzione, eh? Beh, in effetti non era così scontato, per questo il sapore del successo di questo primo scorcio di campionato è ancora più dolce per il team di Milton Keynes e per i sodali nipponici.
Nella sua storia in Formula Uno, la RedBull è stata spesso sottostimata e sottovalutata, innanzitutto perché non costruisce da sé i propri motori – almeno fino ad oggi, grazie al congelamento delle specifiche ottenuto proprio da Horner & Co. all’indomani dell’addio di Honda alla F1. Troppo spesso si è cercato di ridurre a fenomeno passeggero quello che, da almeno 15 anni, è un team che ha messo profonde e solide radici in Formula Uno, scandendone da protagonista gli ultimi anni.
È iniziato tutto nel 2005, quando un’azienda salisburghese multimilionaria, dopo essersi divertita con gli sport estremi, ha voluto cimentarsi nel più estremo di tutti: far passare Helmut Marko per uno che aveva a cuore le belle speranze dei giovani piloti. Da brava ciurma di corsari, col bottino frutto delle proprie scorrerie nei portafogli di chi si illudeva di diventare Patrick de Gayardon ingurgitando un energy drink, la Red Bull si prendeva la blasonata ma fallimentare Jaguar con tutto Adrian Newey dentro e trasformava quella che era stata la gloriosa Minardi di Faenza in una succursale sforna-talenti a uso e consumo del buon Marko. Il quale ha pure un occhio solo, come nella migliore tradizione piratesca.
Il loro programma per giovani piloti somiglia in tutto e per tutto agli Hunger Games, con la differenza che chi arriva sano e salvo alla fine, all’agognato sedile, non trova l’abbraccio di una Jennifer Lawrence in abiti succinti: quelli, gli abiti succinti, li riceverà per sé, quando a cadenze regolari sarà costretto a indossare dei fantastici lederhosen per girare goliardici spot, assieme ai compagni di squadra e a qualche prosperosa mucca salisburghese, unica presenza femminile ammessa. Molti non hanno retto – la pressione del team e l’effetto dei lederhosen – qualcuno è stato brutalmente messo alla porta, altri sono scappati dalla concorrenza e c’è perfino chi si è dato alla musica. Eppure, nonostante il sacrificio di tanti giovani pupilli nell’arena di Milton Keynes, la Red Bull ha trovato due perle: Sebastian Vettel, salvatosi dagli Hunger Games salisburghesi avendo corso in gioventù sotto l’egida di BMW, e Max Verstappen, per nulla provato dagli scontri nell’arena in quanto abituato a Jos.
Tempo qualche anno e questi bucanieri dell’automobilismo hanno chiuso l’era dei motori aspirati con un quadriennio di successi, durante il quale hanno battuto senza appello tutto il sacro gotha della Formula Uno: Ferrari in testa, assieme a McLaren, Williams e a Mercedes, che forniva i motori a mezzo paddock. Dimostrando al contempo che un team ben organizzato, con le persone giuste nei posti giusti, capace di intessere buone relazioni anche ai piani alti e che, soprattutto, non smette mai di sviluppare le proprie vetture cercando sempre soluzioni geniali – o rielaborando senza remore quelle dei concorrenti – può avere ragione di scuderie storiche anche con un ragazzino al volante che si batte contro fenomeni del pilotaggio.
Il fatto di non costruire da sé i motori, però, ha avuto negli anni delle ripercussioni. In primis, ha fatto subire a Red Bull le conseguenze di dover dipendere da qualcosa che si poteva controllare fino a un certo punto. Inoltre, questo fatto ha portato il team di Milton Keynes a essere trattato come paria dall’aristocrazia degli storici costruttori di Formula Uno, soprattutto in seguito al rientro in F1 della gloriosa scuderia di Stoccarda come team e non solo come fornitore di propulsori. Mercedes e Ferrari, costruttori innanzitutto di motori, negli ultimi anni si sono misurate fra loro in una lotta grondante potenza, storia, nobiltà – e anche lacrime amare e sanguinolente per quanto riguarda il versante maranelliano – lucidandosi i galloni di contendenti principi e principali.
E RedBull? Nei primi anni dell’era turbo ibrida ha stretto i denti, subendo le ondivaghe performance di una power unit Renault deficitaria sia in termini di potenza che affidabilità, ma togliendosi anche qualche soddisfazione, approfittando di ogni centimetro di pista lasciato sbadatamente scoperto da avversari distratti e rosicchiando ogni centesimo sfruttando il proprio punto di forza, che è anche il tormentone dei suoi spot televisivi: le aaali!
Fino al colpo di teatro, quando i corsari col Jolly Roger fatto di tori imbizzarriti, messo da parte malamente lo storico partner transalpino, si alleavano con gli altri intoccabili dell’era turbo ibrida, i giapponesi di Honda, complici della trasformazione di un pluriiridato in un meme vivente. C’erano tutti i presupposti per cui questo meltin pot filosofico, industriale e sportivo finisse come 47 Ronin, ma senza Keanu Reeves e con il 47 inteso nel senso della smorfia napoletana. Invece ora direi che quelle mani che abbiamo alzato poco fa possiamo usarle per applaudire chi, con merito, ha imparato dai propri errori, ha gestito bene la pressione, non ha mai perso il contatto con i primi della classe e ha sfruttato al meglio i propri talenti, su tutti l’organizzazione del team, stabile da decenni e al più arricchita da innesti di indubbio valore prelevati dalla concorrenza.
Entrati nel sancta sanctorum dell’automobilismo sportivo con molta sfacciataggine e poco timor reverenziale, hanno imparato a indossare lo smoking sui lederhosen, diventando decisivi anche nelle riunioni attorno ai tavoli che contano, dosando faccia tosta e competenza. Senza mai cedere alla retorica del “comunque vada sarà un successo” e del “riserviamo gli sforzi di sviluppo alla prossima monoposto”, che restano delle scuse, anche se qualcuno se ne fa un vanto.
Per cui onore a Red Bull e che il vento gonfi il loro Jolly Roger fatto di tori imbizzarriti. Complimenti agli avversari, che hanno saputo capire che a un pilota, oltre che una macchina, bisogna dare una squadra.
Fonte: http://feedproxy.google.com/~r/CircusFormula1/~3/v1X1a_jY9ZE/redbull-vince-e-convince-le-ali-adesso-mettetele-voi.php
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