Arrivare alla Dakar per la prima volta ed essere trasportato sul percoso, in mezzo alle dune, è un’emozione difficile da descrivere. Non capisci dove sei, o meglio lo capisci, perchè non sei completamente stupido,ma non riesci a razionalizzare di come si possa correre lì.
Ti sistemano a bordo di un canyon non tanto profondo. E ti dicono di aspettare. Passano 5 minuti e vedi una nuvola di sabbia che si avvicina, è una moto che avanza, c’è qualcuno sopra con un casco e slalomeggia tra sassi e dune e sparisce dietro una curva alla fine del tratto di canyon che possiamo osservare. Dopo due minuti, un’altra nuvola questa volta arriva da sopra. Un altro motociclista che però ha scelto un percorso diverso rispetto al collega, passa sopra il canyon, ma le difficoltà sono le stesse.
Qualche altro minuto e il rumore si fa più forte, da dentro il cuore del canyon. È un buggy della Mini che scuote le pareti di sabbia e trasporta dietro di se un nuvolone di polvere e pulviscolo che sale fino a noi. E poi in successione passa una Toyota e la Peugeot di Loeb. Per fortuna ci mettono a disposizione una di quelle bandane che possono essere messe a protezione di tutto il volto dal collo in su. Perchè la sabbia ti si infila ovunque, a partire dalle orecchie se non ti proteggi bene e subito.
Improvvisamente lo scenario cambia. Lo spettacolo diventa doppio. Si alza un vento teso, forte, ci avvertono che non è un vento normale, ma una tempesta di sabbia. Niente male al debutto alla Dakar, no? Ma lo show must go on. E lì capisci che il confine tra passione e follia, tra consapevolezza razionale e scelta di vita, cioè di scegliere il rischio come scelta di vita, è praticamente nullo e allora ti arrendi alla volontà altrui. Perchè anche quando non si vede più niente, quando nessuno, tranne loro, si avventurerebbe in quella nuova di niente che ti sferza la pelle, il viso: beh, anche in quel momento loro vanno dentro, non si fermano, continuano a correre. Chi per arrivare prima degli altri, chi per arrivare e basta, chi anche solo per sopravvivere.
E in fondo, questa è la Dakar, che piaccia o no. A loro piace così, per noi è follia pura. Ma ognuno deve essere libero di vivere, di giocarsi la propria vita (con i propri soldi) come meglio crede. A noi è stato sufficiente guidare per 10 minuti le nostre Mini Countryman nella tempesta di sabbia, su quel dannato borotalco che è il fesh fesh che ti impedisce di vedere dove vanno le tue ruote per confortare la nostra opinione. L’approdo sull’asfalto è stato salutato da un boato, il nostro e quello della Mini, capace comunque di superare senza intoppi ostacoli del genere, senza avere un Peterhansel qualsiasi alla guida
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