Il mio primo impatto con una rete da pallavolo

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Ho già raccontato qualche tempo fa di una mia bella storia d’amore nata sotto la rete (qui) con quella che sarebbe poi diventata una splendida giocatrice di successo e molti hanno scritto sulla mia pagina Facebook chiedendomi ulteriori dettagli. Tuttavia posso dire a chi me lo ha chiesto che sì, siamo ancora grandi amici. Ci sentiamo e vediamo anche abbastanza spesso. A Chiara che mi ha chiesto… “?” dico “”.

Vederla è sempre una bella cosa, sa sempre spiazzarmi: al dolce mi dice

E mi sono messo a ridere: così come l’ho raccontato a lei, lo racconto a voi.

Siamo a Genova, a Pegli per la precisione, il quartiere del ponente dove sono cresciuto: probabilmente è il 1978 perché mi ricordo di avere avuto tredici, quattordici anni. Ed ero già discretamente idiota. Seguendo la tradizione di famiglia perpetuata da mia sorella Cristina e mio fratello Giuseppe anche io ero scout. Negli scout ho trascorso almeno dodici anni prima di dedicarmi interamente al lavoro. Mi divertivo come un pazzo: avevo amici fantastici con i quali si rideva sempre, qualsiasi cosa facessimo. E dunque camminate interminabili – è vero – ma anche gite fantastiche in montagna, discese in grotta, bivacchi sotto le stelle e terrificanti acquazzoni che mi hanno fatto riconsiderare il concetto di pioggia. Con gli scout ho preso tanta di quell’acqua, ma tanta di quell’acqua, che da allora non ho mai sopportato l’idea di portare l’ombrello. Adoro bagnarmi.

Il mio gruppo aveva la sua sede presso la parrocchia di Sant’Antonio Abate al Lido di Pegli: era un gigantesco convento francescano con sale, saloni, salette, teatri, un campo da calcio su un terribile fondo in torba e ghiaia che a ogni caduta provocava sbucciature che sembravano disegnate da una fiamma ossidrica. E un ancora più orrido campetto polivalente in asfalto: due canestri con tabellone di imprecisato metallo sul quale non sarebbe rimbalzato nemmeno l’Uomo Gomma dei Fantastici Quattro. Sui lati due micidiali pali d’acciaio, il sostegno della rete da volley. I ragazzi erano i padroni incontrastati dei campi da gioco: se qualcuno osava parcheggiare all’interno dei campi noi giocavamo lo stesso, per ore. Pazienza… Il giorno dopo quella macchina di sicuro sarebbe stata parcheggiata altrove.

Quel giorno ero particolarmente orgoglioso: mio fratello mi aveva passato la sua bicicletta, una Roma Sport verde con freno a pedale e avevo ottenuto il permesso di andare da casa – Quartiere Giardino – a Sant’Antonio in bici. Non ero così agitato nemmeno quando sono andato a Capo Nord in moto. La discesa dal Quartiere Giardino passando dalla strada vicinale tra le colline era stata uno scherzo. Ero talmente gasato che non mi ponevo nemmeno il problema del ritorno quando la discesa sarebbe diventata salita: e che salita! Ma il peggio fu al campetto: arrivo tutto orgoglioso con la mia bici modificata – via la sella lunga da tarro sostituita con un sellino da corsa, il tutto qualche anno prima delle BMX, irrompo dal cancello del campo di calcio ed entro nel campetto da basket dove incontro un amico.

mi dice…

– rispondo –

SBAM!

La bici vola via e io finisco sdraiato sbattendo pesantemente la testa per terra. Quando mi riprendo ci sono Padre Flavio che mi prende a schiaffi e un paio di capi che mi urlano di svegliarmi. Belin, che mal di testa. Ma che ho fatto?

Eccolo il mio primo impatto con una rete da pallavolo… in piena faccia. Era montata e non me ne sono accorto: ci sono finito dentro in pieno. Una delle cose belle di Sant’Antonio era che a fianco c’era un piccolo ospedale con Pronto Soccorso annesso, il Martinez. Niente ambulanza… in barba a tutte le regole fissate in seguito sull’assistenza a potenziali traumi cranici mi ci hanno portato a braccia. La Tac credo non esistesse ancora ma sicuramente non l’avevano lì. Dopo quattro, cinque ore di barella e una flebo di antidolorifico (una mano santa!) hanno stabilito che la testa c’era, il cervello era quello era ma c’era anche quello e che le uniche cose da curare, a parte il mio orgoglio ferito, erano l’occhio sinistro tumefatto, il bernoccolo sulla nuca che non aveva nemmeno richiesto dei punti e il gomito sinistro che presentava un’abrasione degna di uno spettacolo di freestyle motocross.

Va da sé: tornai a casa accompagnato in macchina da mia mamma – papà era sicuramente in viaggio in qualche parte del mondo con la sua nave – e la bici entrò non so nemmeno come nel bagagliaio della Simca. Da allora usai la mia bici solo in campagna. E io venni preso in giro per almeno cinque, sei mesi. Il concetto di “finire in rete” cambiò completamente significato. L’occhio assunse in dieci giorni qualsiasi sfumatura cromatica: dal nero pesto, al blu notte, poi indaco e cobalto e alla fine uno strano giallino con venature rosse. Avrei voluto dire che mi ero picchiato con una banda di selvaggi del violentissimo quartiere vicino… ma la storia aveva fatto il giro di Pegli in meno di mezza giornata.

La mia amica non ha nemmeno toccato il creme caramel, ride a crepapelle: ha i crampi e le lacrime agli occhi. State ridendo anche voi? Bene, sono qui apposta… ho fatto un buon lavoro.


Fonte: http://www.volleynews.it/feed/

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