Da dieci anni, cioè un’eternità, l’Italia del ciclismo non piazza lui uomo fra i primi tre nella prova iridata. Dal doppio la pallavolo azzurra al maschile non sale sul podio mondiale, dal 2002 al femminile, quando si vinse quell’unico oro, per poi tornare ai nostri più tradizionali quarti, quinti posti. Nel basket, dopo il 2006, siamo scomparsi dal mappamondo e sarà una gran cosa tornarci il prossimo anno, e non è neppure il caso di accennare al calcio degli uomini. L’ultimo oro mondiale di una nazionale azzurra, quello degli uomini della pallanuoto, è datato 2011. Nel 2018, nei grandi campionati dei nostri più tradizionali giochi di squadra, lo sport italiano è riuscito nella quasi impresa di mancare tutte le medaglie. L’unica, di bronzo, è arrivata nella prova in linea del ciclismo femminile con Tatiana Guderzo. Per il resto hanno festeggiato un podio Francia, Croazia, Belgio, Spagna, Canada, Polonia, Brasile, Usa, Olanda, Australia, Serbia, Grecia. Abbiamo visto vincere squadre che non erano la nostra, e invece abbiamo vinto, molto, negli sport che si praticano in pochi, come fanno le ragazze del basket 3×3 (campionesse del mondo quest’anno nelle Filippine), nel nuoto, nel canottaggio, e lampi, anche abbaglianti, sono arrivati dal tennis, dal golf, dall’atletica. Ma non eravamo, un tempo, il Paese degli sport di squadra?
«Tutto è cambiato» racconta Nicola Porro, docente di Sociologia dello sport presso l’Università di Cassino, «dai primi anni Duemila, quando soprattutto lo sport italiano ha adottato la concezione degli “sports for everybody”, con una diffusione dello sport per tutti e a tutte le età, ma in senso individualistico, quasi solipsistico. Si è perso il valore della squadra in senso lato e si è privilegiato, di pari passo con uno sviluppo in senso individualistico della società e della comunicazione, l’aspetto “singolare” della pratica sportiva. Una spia di questo è il nuoto, che dal Duemila è diventato lo sport trainante del movimento italiano, dopo decenni di zero nei vari medaglieri. In più c’è lo scarso attaccamento alla maglia della Nazionale, e in questo ci scontriamo spesso con Paesi più “giovani” sportivamente del nostro, come quelli balcanici ad esempio, in cui proprio lo sport è una sorta di prolungamento con altri mezzi di guerre per l’autoaffermazione. Questa concorrenza così forte e per certi versi improvvisa ci ha spiazzati». Riemergono, allora, Paesi come la Polonia, due volte di seguito campione del mondo nel volley: «I loro segreti» spiega Fefé De Giorgi, tecnico dello Jastrzebski Wegiel ed ex et della nazionale biancorossa. «sono lo spessore mediatico della pallavolo, non solo prima di un grande evento ma sempre, l’attenzione estremamente passionale dei tifosi, la disponibilità di strutture stellari e l’umiltà che hanno avuto nel ripartire affidandosi a tecnici stranieri, molti dei quali italiani. In più ci sono un rapporto sano tra i club e la federazione e la grande voglia da parte dei giocatori di farsi vedere con la maglia della Nazionale, di giocare uniti, assieme». Nella pallanuoto il discorso “etnico” è ancora più forte e l’Italia spesso deve soccombere di fronte alle nazionali balcaniche.
«Credo» analizza il et azzurro Sandro Campagna, «che le difficoltà nella vita servano a strutturarsi, e anche la fame: guardate i serbi che vengono da una guerra come crescono e anche i greci dalla crisi economica. Noi? Ci lamentiamo ma alla fine stiamo bene e questo è molto evidente dentro le nuove generazioni. I ragazzi di oggi hanno spesso la strada spianata, spesso dalle famiglie, e quando devono subire una selezione preferiscono rinunciare a priori piuttosto che soffrire un’esclusione. E nel gruppo i deboli stanno coi deboli, evitano di confrontarsi coi più bravi. La nostra società ha concesso troppo, i no sono stati sempre di meno». La maggiore ampiezza della concorrenza spiega solo in parte il tracollo dei numeri dello sport di squadra azzurro, regredito in vent’anni dalle 32 medaglie nei grandi tornei degli anni Novanta alle sole 15 dei Duemila. Il discorso è assai più profondo.
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