Pierluigi Marzorati, come cominciò la leggenda del santo palleggiatore? Ecco alcuni passaggi di una bella intervista al grande playmaker di Cantù, che ha attraversato cinque decenni di professionismo baskettaro – con relativo record – e si racconta con aneddoti alla penna di Giorgio Gandola de La Verità: “In palestra, all’oratorio. Ero un bel contropiedista, facevo ballare la palla e correvo più veloce di quelli di due metri. In più ero alto 1,87, non proprio un nano. Per il basket a livello individuale basta e avanza. Il resto lo ottieni se sei in sintonia con gli altri quattro”.
Sport & studio. Ricordo che al Politecnico non ho perso neanche un anno, a 26 mi sono laureato. Prima delle Olimpiadi di Monaco 1972 andammo a fare una tournée negli Stati Uniti, era gennaio e a New York nevicava. Giocammo tre partite che avrebbero potuto cambiarmi la vita. Mi fu chiesto da un college di fermarmi a studiare là, era il miraggio di tutti in Europa. Dino Meneghin e io eravamo i due prospetti più futuribili di allora, ma in termini di comunicazione le distanze fra Italia e Stati Uniti non erano le stesse di adesso. – Così rinunciò. – Decise per me mamma Ernesta, che adesso ha 95 anni. Intervenne e disse: finisci qui. Detto e fatto, dottore in Italia. Ma non ero l’unico, ricordo Nicola Ungaro, ingegnere, e Giorgio Papetti, medico. Affacciarci subito su un altro orizzonte fu utile, ci sentivamo completi, rispettati. Ma attenzione, in palestra eravamo tutti uguali.
Di Brewer e Boswell. Jim Brewer, gran professionista. Poi arrivò lo scudetto e arrivò quel matto di Tom Boswell. Era un fenomeno alternativo, praticamente ingestibile, il classico americano ribelle da film o da libro della beat generation. Era anche un’ala che giocava da centro: devastante». E qui vale la pena fare un inserimento, ascoltare la voce di popolo, riportare quell’aneddoto del Boswell alla locanda Garibaldi al terzo piatto di trippa, arrivato da pochi giorni a Cantù e già alla vigilia di un sanguinoso derby con Varese, a Masnago. I commensali anticipavano le marcature, lui scucchiaiava il foiolo. A un certo punto, compreso a spanne il tema bofonchiò a bocca piena: «Chi più forte Varese?». Era Meneghin. Lui si segnò il numero 11 su un foglietto e disse: «I got it, ci penso io». Lo avrebbe annullato senza conoscerlo, con tre piatti di trippa in corpo.
La più grande soddisfazione. Al di là delle coppe Campioni, il ritrovarmi nella selezione europea del 1974 al fianco di Kresimir Cosic, Sergei Belov, Wayne Brabender e Dino Meneghin. Una collezione di leggende.
L’ingegnere. Ho fatto il consulente tecnico per l’impiantistic a sportiva della Fiba, ho curato i palazzetti delle olimpiadi di Atene nel 2004 e di Pechino nel 2008. Normative, parametri, atleti, stampa, omologazione canestri, tabelloni in vetro. Dovevo mettere d’accordo 200 federazioni. Avevo capito che c’era bisogno di un salto di qualità nel 1982, mentre giocavo la finale di coppa Campioni a Colonia contro il Maccabi Tel Aviv.
Oggi il Cantushire parla russo. Che succede? La situazione non è effervescente, ma non ci sono alternative. Però l’humus dei tifosi c’è sempre, la Brianza è un grande bacino per il basket e andare a giocare a Desio non deve essere percepito come un ripiego. Quando c’è passione c’è sempre anche futuro.
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