Sportweek non può fare a meno di intervistare l’allenatore del giorno, quel Simone Pianigiani che ha rispettato i pronostici scudetto dello scorso settembre, passando attraverso l’inevitabile carico di difficoltà con cui devono fare i conti un allenatore nuovo e un roster nuovo, con doppio impegno in Legabasket e EuroLeague che garantivano prima della palla a due che con la Supercoppa italiana dava il via alla stagione 2017-18 almeno 61 partite ufficiali. Senza dimenticare di avere a che fare con una società esigente, che veniva da una annata davvero sottotono sia per i risultati che per la depressione dell’ambiente, che aveva voglia di un riscatto senza limiti d’asticella ma che proprio per il pregresso non poteva essere sfolgorante e certo.
A lezione per primo. “Sono venuto qui a imparare”, spiega Pianigiani a Fabrizio Salvio, “perché lo sport ad alto livello è fatto ormai di club come questo, club-azienda, macchine complesse delle quali devi sposare la filosofia. Io l’ho fatto, provando allo stesso tempo a introdurre la mia”.
Filosofia del coach. “Una regola di base: non esiste il giorno libero, perché ogni giorno è buono per perfezionare un particolare e. dunque, per migliorare. Abbiamo lavorato tutto l’anno, di squadra e sui singoli, alla costante ricerca della cura del dettaglio e dell’eccellenza, perché sono questi a fare la differenza in un campionato come quello italiano, sempre più livellato verso l’alto”.
Senza dominare. “Sarebbe stato impossibile: eravamo tutti nuovi, staff tecnico e giocatori, e tutti figli di culture diverse. Siamo partiti con un’idea di squadra, ci siamo ritrovati con un gruppo diverso e più complesso da assemblare dal punto di vista tecnico: la coppia titolare di guardie doveva essere composta da Theodorè e Goudelock. poi il primo si è fatto male e al suo posto abbiamo inserito un play penetratore come Jerrells; i lunghi titolari sarebbe dovuti essere Young e Jefferson – neri, esperti, difensori – siamo passati a due centri bianchi e giovani, due rookie come Tarczewski e Gudaitis. Per fortuna ho potuto contare su brave persone, che si sono messe a disposizione con umiltà; ma è stato difficile gestirlo tecnicamente. Abbiamo fatto il triplo della fatica”.
Giudizio sull’EuroLeague. “Le prime tre partite le abbiamo fatte alla grande: a Mosca, prima di perdere, eravamo davanti, in casa col Fenerbahçe siamo usciti sconfitti al supplementare, a Madrid col Real eravamo pari alla fine del primo tempo, alla quarta giornata abbiamo battuto il Barcellona. Poi abbiamo perso Goudelock per un mese a causa di un infortunio, e a fine dicembre eravamo ultimi con una squadra acciaccata e stanca. Eppure proprio quella è stata la svolta della stagione. In quel momento mi sono chiesto se avevamo la forza mentale e morale per reagire. Lo abbiamo fatto. Ho capito di aver creato qualcosa e che la crescita della squadra sarebbe continuata. Tanto è vero che, a parte l’incidente di percorso in Coppa Italia, in campionato abbiamo vinto otto partite su dieci. Anche il presidente Proli è stato decisivo nel motivare i giocatori, aiutandoli a tenere dritta la barra”.
Sintonia con Proli. “Per me, in estate, non è stato facile decidere per Milano: avevo vinto in Turchia e in Israele, pensavo di continuare all’estero. Poi, Proli e io abbiamo scoperto di avere una visione comune delle cose e non ho più avuto dubbi”.
La balla dei centri dominanti. “È una balla pazzesca, basti vedere i numeri dei due, anche in Eurolega. Il fatto è che né Gudaitis, né Tarczewski hanno i movimenti del post basso, sanno cioè giocare spalle al canestro: vanno serviti in un certo modo, assecondando i loro movimenti e al culmine di precise rotazioni fra i giocatori. Se abbiamo tirato tanto da tre è stato dovuto proprio al fatto che i nostri lunghi hanno “rollato” in un certo modo”.
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