Larry Brown a ruota libera su tutto: Datome, Bargnani, James e…

L’esordio a 78 anni come coach in una competizione continentale come l’EuroCup di pallacanestro è qualcosa di inatteso anche per Larry Brown. Il leggendario coach americano si trova con la Fiat Torino in Germania per la giornata numero 1 in casa del Fraport Skyliners. Per il corriere della Sera esce l’intervista di Flavio Vanetti.

Le radici della sua famiglia si legano alla Bielorussia ebraica: il nonno e il padre emigrarono poi negli Usa, dedicandosi all’arte della panificazione. Ma Larry Brown non ha seguito le loro orme. «Non ho mai voluto lavorare! Ho sempre pensato al basket: desideravo insegnarlo». Detto e fatto: il nuovo coach di Torino è l’unico allenatore al mondo ad aver trionfato nella Nba e nella Ncaa, oltre a vantare un bronzo e un oro (come vice) ai Giochi. Il primato olimpico, invece, l’ha vissuto da giocatore a Tokyo 1964, dove condivideva la stanza con Bill Bradley, l’asso del Simmenthal campione d’Europa nel 1966.

Il valore aggiunto che LB, 78, golfista ed ex maratoneta, regala alla serie A è impagabile. Larry Brown, è un sognatore o solo un coach? «Vorrei essere più un insegnate che un coach. Ma sono anche un “dreamer”: ho sognato quello che sto facendo ora a Torino». Frase di Sandro Gamba: Brown è eccellente sul campo, dove «spiega» il basket. «Ho imparato tanto da Sandro, amico di Dean Smith. Smith mi spiegava: il campo è un’aula di scuola; quello che rimane in una squadra è ciò che le dai in allenamento. Il miglior coach è un bravo maestro».

A North Carolina ha imparato che l’educazione e le buone maniere vengono prima del basket. «Be’, l’educazione spero di averla appresa prima in famiglia. McGuire, un mentore perché da giovane mi seguì quando persi papà, mi ha poi insegnato l’importanza dell’eleganza: tanti ti giudicano dall’abito». Lei passa per essere il Lord Brummell della panchina. «Mio cugino era un ottimo sarto e mi ha confezionato vari abiti. Ma negli anni della Nba, Armani era solito vestirmi: adesso dovrò battere la sua squadra…».

Ha mai immaginato di allenare, un giorno, Cusin e Poeta? «No (risata). E sono cosciente che devo imparare molto. Qui si gioca un basket diverso dalla Nba, ma è lo stile che amo. Marco, Peppe e Carlos (Delfino, ndr) sono anche degli insegnanti per i giovani: io imparo da tutti». Un coach deve essere dittatore, padre o amico? «Non mi piace dittatore, preferisco leader. A volte sei un padre: ho incontrato tanti ragazzi che non avevano mai conosciuto il papà. Alla fine devi essere leader e insegnante, ma dopo una partita sei pure un amico».

Nel basket italiano di oggi si vedono americani di basso valore. Siamo fuori strada? «Tanti pensano di venire qui per poi andare nella Nba. Ma non è un bell’atteggiamento. Devi voler imparare a giocare a basket, oltre ad apprendere la lingua e a capire la cultura del posto».

Ettore Messina avrà una panchina Nba tutta sua? «È finita l’era dei coach solo americani. Il serbo Igor Kokoskov, già mio vice a Detroit, allena i Phoenix Suns. Ettore? Ce la farà».

Dino Meneghin è uno dei totem del basket italiano. «È stato uno dei miei giocatori preferiti. A Milano era uno dei migliori cestisti al mondo. Sono preoccupato che non nascano altri Dino Meneghin». Che cosa servirebbe? «Programmi più mirati sui giovani. A Torino ne stanno avviando uno: vedo qualità nell’insegnamento. Ma bisogna crearne altri, serve un’accademia del basket».

Ci parla di Belinelli, Gallinari, Bargnani e Datome, gli ultimi italiani in ordine di tempo finiti nella Nba?. «Ho sempre ammirato Belinelli, mentre Gallinari è stato sfortunato e Datome ha rinunciato presto. Bargnani? È arrivato nel momento sbagliato: oggi piacciono i lunghi che tirano, all’epoca non è stato capito».

LeBron James riporterà i Lakers a vincere l’anello? «Temo di no. I Golden State hanno una forza incredibile e hanno aggiunto DeMarcus Cousins».

È più importante fare bene con Torino o lasciare un’eredità al nostro basket? «Non pretendo di lasciare eredità. Voglio aiutare Torino ad avere successo, ma vorrei anche condividere qui quanto ho appreso nella mia vita da coach: ecco, il sogno di cui parlavo è questo». Pronostico per il campionato? «Ho visto buone squadre, colleghi all’altezza e un livello superiore a quanto immaginassi. Torino? Dirà la sua. Milano è favorita? Sì, ma le rivali non mancano. Riflessione: non ha senso tenere tanti giocatori italiani in panchina. La serie A crescerà se darà fiducia ai giovani. Mi ricordo del vostro basket quando era davvero grande: dobbiamo riportarlo a quei livelli».

È d’accordo con la protesta anti-Trump di Stephen Curry e LeBron James? «Andare alla Casa Bianca è una tradizione e un onore. Io ci andrei anche se governasse Topolino, e non sto dicendo che Trump è Topolino. Dopo l’oro olimpico di Tokvo fui invitato. Kennedy era stato già ammazzato e Jfk era il mio eroe. Lyndon Johnson, invece, non lo era. Ma non ci badai: avevo vinto, accettai. Il nostro Paese sarebbe migliore se ragionasse come una squadra».

Il divario tra la Nba e resto del mondo si attenuerà? «No, aumenterà: il meglio del resto del mondo ormai finisce nella Nba, due anni fa 30 su 60 selezionati nel draft erano stranieri».

È giunto a Torino assieme a Cristiano Ronaldo. «Sono tifoso del Manchester United, ma quando ho sentito che Ronaldo aveva lasciato Madrid per la Juventus ho esclamato “wow”. Peraltro mi hanno raccontato la storia del Grande Torino. Sono in difficoltà: ho sempre cercato di tifare per la squadra del posto, ma qui ce ne sono due…».

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