Dipendenza dai fuoriclasse: Ronaldo e LeBron per Real e Cavaliers

Dai successi alle macerie. Succede quando una nuova scelta professionale e nuovi stimoli lasciano un buco nero alle spalle. Le conseguenze della dipendenza. Cristiano Ronaldo e LeBron James seminano speranze alla Juventus e ai Los Angeles Lakers. Mentre per il Real Madrid e i Cleveland Cavaliers, le ex squadre dell’attaccante portoghese e del Prescelto, c’è il buio. Era fine maggio quando il Real alzava la terza Champions League in fila. Una settimana dopo, sulla Baia di Oakland, i Cavs di James erano alla quarta finale consecutiva NBA contro i Golden State Warriors di Curry e Durant, forse la squadra più forte nell’era moderna del basket (e battuta nel 2016).

Ora, cinque mesi più tardi, per i Blancos e i Cavs ci sono soprattutto sconfitte da contare, allenatori rimandati a casa (Julen Lopetegui e Tyronn Lue), candidati che preferiscono schivare la nuova panchina quasi fosse un jab di Muhammad Ali e uno spogliatoio sottosopra. È l’effetto del peso della dipendenza da fenomeni di questa portata, che girano la chiave e vincono le partite, rendendo più leggera l’esistenza ai compagni, all’allenatore. E che per la loro grandezza, anche mediatica, tendono a cucirsi addosso le dinamiche di un club, a orientarne le scelte dentro e fuori al campo: si tratti della scelta di un compagno, di un dirigente o un allenatore. Ronaldo si aggregò a Sergio Ramos e al gruppo degli insofferenti verso Rafa Benitez, accelerandone l’esonero e facendo spazio a Zidane. LeBron fece piazzare Lue sulla panchina di Cleveland, senza che avesse esperienze nella Lega.

Poi finisce che i giganti vanno via e si spegne la luce. Alberto Cei, psicologo dello sport, spiega: «Sono catalizzatori, figure uniche, perfezionisti nel lavoro quotidiano. Non vedere in allenamento il migliore al mondo che va più forte di tutti, ogni giorno, fa perdere motivazione al resto del gruppo di lavoro. Quindi va ridefinito un nuovo standard d’intensità, su come si gioca, ci si allena, ci si comporta, filtrato dalla società e dall’allenatore sino agli atleti, costretti ora a dare qualcosa in più. Anche al Real, dove ci sono campioni come Ramos, Kroos, Modric, ma non con lo status di Ronaldo, cinque volte Pallone d’Oro».

È un destino per pochi, così forti da far sognare e poi lasciare al buio una squadra. Al Manchester United c’è ancora una voragine intorno alla panchina di Sir Alex Ferguson, in pensione da cinque anni, con Moyes, Van Gaal e Mourinho che non sono riusciti, nonostante investimenti milionari, a riattaccare la spina a Old Trafford. Nella Nfl c’è stato Peyton Manning, leggenda dei Denver Broncos, Superbowl 2015 vinto a 40 anni e immediato ritiro, con i Broncos senza playoff per le due successive stagioni e otto batoste in fila nel 2017. Rino Marchesi è oggi un signore di 81 anni, un eletto del pallone che negli anni 80 ha potuto allenare il primo Maradona a Napoli e l’ultimo Platini alla Juventus. Dice: «Effettivamente la dipendenza da un fuoriclasse esiste, è un rischio calcolato che però ogni allenatore vorrebbe correre ma incidono anche i caratteri e soprattutto il timing con la Storia. Alla Juve mi sono ritrovato un Platini al tramonto, stanco, demotivato, due reti totali, lui che era sempre andato oltre i 20, con tutti i segnali della fine di un ciclo. Invece a Napoli ho avuto Diego, il più grande di tutti assieme a Pelé e Di Stefano. Non ci si poteva adagiare con lui, anzi. I calciatori hanno provato ad alzare al massimo il livello delle prestazioni, per essere alla sua altezza». La dipendenza, a quel punto, è il minimo.

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